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252 IL BUON CUORE


Pel Manzoni si trattava infatti di concorrere a consacrare nella forma di legge, consentita e promulgata dai poteri dello Stato, con concetto vagheggiato fin dagli anni giovanili, e maturato di poi da diuturno speculazioni dell’intelletto; sicchè alle altrui sollecitazioni, ora veracemente affettuose, ora, sotto forma di premura per la salute, subdole ed insidiose, oppose egli la più ferma risoluzione della volontà. Per lui, come si scorge anche da ciò che dice il Giorgini, l’uscir della capitale da Torino per fermarsi intanto a Firenze, voleva dire avviarsi a Roma, ed egli non voleva esser assente in così solenne occasione. Badi, gli diceva taluno, badi don Alessandro: Ella è vecchio, ha ormai ottant’anni, la stagione è rigida. Ed egli si consulta col fido servo si assicura la desiderata compagnia del genero. Sarà sentito male, gli sussurrava l’altro genero, il D’Azeglio, che un lombardo s’interponga in una questione essenzialmente piemontese, e nella quale i senatori piemontesi vogliono dar prova di disinteresse, anzi di sagrificio alla madre patria. La legge si voterà lo stesso, anche se non andrete! Ma egli non pensava in questo momento al Piemonte, bensì all’Italia. I preparativi occulti della partenza, la partenza stessa di buon mattino, tutti i particolari del fatto, lo rendono somigliante alla fuga misteriosa di un collegiale, coll’aiuto di un domestico e di un complice. Si direbbe una congiura fra tre persone contro uno stuolo di vigili congiunti ed amici. Sapeva egli che avrebbe fatto dispiacere a taluno di quelli che lasciava in casa e degli altri che avrebbe trovato a Torino: ma era nell’indole sua di fare quello che gli dettava il dovere; e quando parlava la coscienza, egli era irremovibile.

Già da molti anni addietro, coll’occhio volto alle vicende del passato e insieme ai fasti dell’avvenire, egli aveva previsto qual sarebbe stata, nella pienezza dei tempi, la soluzione dell’antico complotto fra una Italia che diventasse unita e il papato temporale, e non senza forse un po’ di malizia, aveva posto il vaticinio sulle labbra del vecchio Re Lombardo. Un siffatto personaggio poteva sballarne delle grosse senza diretta responsabilità di chi gliela faceva dire. A Desiderio aveva pertanto fatto vaticinare, che....

quel di che indarno
I nostri padri sospiùr, serbato
È a noi: Roma fia nostra, e tardi accorto
Supplice invan, della terrena spada
Disarmato per sempre ai santi studi
Adrian tornerà: Re delle preci,
Signor del sacrificio, il soglio a noi
Sgombro darà.
Ma chi vorrà credere che in tal modo intendesse il poeta formulare il programma politico, a così dire, di quel re, ultimo della stirpe «cui fu prodezza il numero, cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà?». Siffatti alti ideali non potevano ispirare quel re semi-barbaro, che all’acquisto di Roma non era mosso se non da cupidigia di maggiore e più stabile dominio. Chi così parla non è dunque Desiderio,
che si richiamava al diritto ei conquista; è il Manzoni stesso che svela il suo pensiero costante e si conforta delle imprescrittibili ragioni del diritto nazionale: chi esprime quei concetti di pace e di giustizia non è uno straniero, e per giunta mezzo-ariano, ma un italiano fervente e insieme zelante cattolico.

Allorchè per uno svolgersi di casi, che potevano sembrare miracolosi, e che la longevità concesse al Manzoni di tutto vedere e su tutto portare il giudizio della sapienza e della esperienza, l’Italia si trovò in condizione di effettuare ciò che prima era un sogno, dovette egli esser ben lieto di poter col suo voto di senatore contribuire e fermare e consolidare l’unità d’Italia con Roma capitale. Negli anni suoi giovanili, quando Murat alzò il grido d’indipendenza egli aveva scritto quel verso

Liberi non saremo se non siamo uni,
che se non è brutto, com’egli stesso lo qualificò, bello non è, ma nessuno oserà dire che non sia profondamente vero nella espressione sua scultoria; e, assai più tardi, il 26 febbraio 1861, aveva con grande soddisfazione dell’animo concorso alla costituzione e promulgazione del nuovo Regno. Ad esso mancavan solo poche genti, come con felice citazione da Dante aveva affermato il suo Giorgini nella Relazione parlamentare che lo fondava, ma sopratutto mancava «il capo», che infallibilmente doveva ricongiungersi al corpo. Le parole che in bocca al re longobardo parevano folle presagio di un vinto, diventavano ora chiara visione di tutto un popolo risorto sulle condizioni essenziali della nuova sua vita.

La risoluzione del grave problema, com’era al Manzoni, non solo giusta e benefica, ma anche facile, e accettabile dalla Curia e dai seguaci e fautori di questa. Dopo un poco di resistenza, come aveva fatto vaticinare al re longobardo, il Pontefice si sarebbe accorto, anche se tardi, che l’ufficio di «Re delle preci» e di «Signore del Sagrificio», era quello che solo gli conveniva, secondo l’istituzione sua religiosa, e che meglio conferiva alla pace del mondo e al bene della fede. S’ingannava, come spesso s’ingannano coloro che sono dominati da una idea fissa. Ma se l’altra, anch’essa in lui dominante dalla gioventù, quella dell’Unità, si era ridotta in atto senza difficoltà soverchia, perchè altrettanto non sarebbe potuto avvenire dalla caduta del poter temporale? Scarsa fiducia aveva però nel Pontefice regnante, e forse ricordava come alle parole di Terenzio Mamiani, ministro costituzionale di Pio IX, non dissimili da quelle che egli aveva fatto pronunziare a Desiderio, e secondo le quali il Sovrano di Roma «vive nella serena pace dei dogmi, dispensa al mondo la preghiera di Dio, prega, benedice e perdona», il Papa stesso, rimbeccando, avesse risposto non soltanto questo essere il suo ufficio, e aver egli anche potestà di sciogliere e di legare in ciò che spettasse al reggimento politico. Prorogando ad altro tempo le sue speranze, dimenticava che il Sacro Collegio è piantonato d’alberi del medesimo legno. Così che, osserva argutamente il