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IL BUON CUORE 259


a riconciliarti prima col tuo fratello, e poi ritorna a fare la tua offerta.

S. MATTEO, cap. 5.


Pensieri.

Vivendo in Società, facendo gli uni vicino agli altri il nostro viaggio, avviene che si resti offesi e si offenda. Come comportarci in queste contingenze? La risposta l’abbiamo nel Vangelo odierno.

Osserviamo, dapprima, che, quando siamo offesi, proviamo un risentimento, un bisogno di allontanare da noi la causa della nostra angustia, di sopprimerla: è un istinto, comune agli animali e agli uomini; è l’ira....

Ma altro è l’ira dell’animale, altro è quella dell’uomo, nel quale, all’istinto, s’unisce l’idea del disprezzo, dell’avvilimento per la persona che offende. E questa parte intellettuale è peccato.

La legge ebraica, proibiva che l’istinto, il desiderio di sopprimere l’offensore s’attuasse. E questa proibizione, era già qualche cosa; ma non adeguava la legge morale, e Cristo non se ne poteva contentare.

Egli non solo approva la proibizione della legge, ma, logicamente, non volendo l’effetto, non vuole nemmeno la causa che lo produce.

Si deve dunque reagire contro il sentimento che toglie internamente, quello che non si toglie esteriormente....

Meditiamo bene la richiesta del Maestro, la sua esigenza morale: rientriamo in noi stessi e vediamo fin dove è necessario spingere la riforma, la purificazione interiore, per rispondere alla nostra vocazione cristiana.

Ma c’è di più. Quando siamo irati, noi diciamo sciocco, noi diciamo stolto (nel linguaggio ebraico vale empio) al nostro fratello e lo offendiamo, così, lo menomiamo intellettualmente e moralmente, fosse l’uomo più sapiente e più santo del mondo. (S’intende che c’è peccato in queste nostre espressioni, quando noi giudichiamo ingiustamente con ira, per sentimento di vendetta; non quando, oggettivamente, riconosciamo che uno è stupido, empio, come, altrimenti, asseriamo che uno è zoppo, l’altro cieco, un terzo sordo).

Questi, dice Cristo, sono rei della gehenna, del tribunale, del giudizio!

Deduciamo che noi non dobbiamo giudicare mai quando siamo irati, perchè, sicuramente, giudicheremmo male....

Salviamoci da noi stessi: nei momenti di commovimento interno, di passione, sospendiamo il giudizio, mettiamoci in calma.... Nella luce della ricuperata serenità, le cose appariranno nel loro oggettivo aspetto, e ben diverse da quello di cui le coloriva la nostra passione....

Quanto male sparirebbe dal mondo, se ognuno di noi, sapesse porre un freno ai propri istinti eccitati, e riuscisse a dominarli!...

Quando uno aveva offeso il suo prossimo, bastava, secondo la legge ebraica, che offrisse un sacrifizio al tempio, così tutto era finito, e si restava in pace con Dio.

Ma il sacrificio non ha valore (ed era questa la grande ignoranza degli Ebrei), il sacrificio non ha valore, se non è accompagnato dal pentimento, dalla riparazione.

Se il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, e tu stai facendo l’offerta, lascia l’offerta, e conciliati prima col tuo fratello.

Sì, se noi abbiamo offeso il nostro prossimo, dobbiamo fare le nostre scuse, avanti tutto, se no, nè sacramenti, nè rosari, non ci giustificheranno davanti a Dio.

Se, contro la verità, una persona si ritenesse offesa da noi, non è dovere di giustizia, ma è carità, dare quella spiegazione, dire quella parola che può far capire l’equivoco, e togliere un cruccio al nostro prossimo....

Se dobbiamo vivere con persone malate, afflitte dalla mania di persecuzione, che prendono tutto alla rovescia.... abbiamo pazienza, serbiamo il silenzio.... offriamo la nostra pena a Dio come espiazione di offese recate ai nostri fratelli e non riparate.

Educazione ed Istruzione


Don Bosco e una pagina di politica ecclesiastica

Alcuni documenti in questi giorni studiati con cura da chi tra i salesiani ha modo di compulsarli, ci mettono in grado di far nota la parte importantissima avuta da D. Bosco in un episodio o non conosciuto affatto o conosciuto imperfettamente delle relazioni tra il Governo italiano e la Santa Sede.

Nel 1865 in tutta l’Italia cento otto sedi vescovili erano vacanti. Quarantacinque vescovi erano stati mandati in esilio; a diciassette eletti dal Papa il Governo non aveva permesso di entrare nelle diocesi: d’altre sedi erano morti i titolari. D. Bosco deliberò di iniziare pratiche presso gli uomini del Governo per indurli a por fine a tale condizione di cose. Ciò, dopo aver chiesto l’approvazione del Sommo Pontefice. Così uno scambio di lettere avveniva tra lui e Pio IX.

Intanto il Re Vittorio Emanuele era stato avvisato che il Papa gli avrebbe scritto una lettera. Pio IX infatti il 6 marzo scriveva, e con benevoli espressioni pregava il Re a tergere almeno qualche lagrima alla travagliata chiesa in Italia, venendo seco lui ad intelligenze per provvedere ai vescovati; e gli proponeva di mandar a Roma una persona laica di sua competenza, per trattare. Il Re rispose dal palazzo Pitti al Pontefice, con dichiarazioni di ossequio, promettendogli di spedire a Roma un inviato per entrare in trattative.