Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
260 | IL BUON CUORE |
Il ministero scelse il deputato Saverio Vegezzi, un uomo attempato, leale, sommo giurista ed espertissimo negli affari. Questi partì il 14 aprile 1865 ed ebbe cortesi accoglienze dal Papa. Ebbe anche varie conferenze col cardinale Antonelli e trattandosi sempre in forma confidenziale, si convenne che lasciata da parte ogni questione politica per le diocesi vacanti in Piemonte, il Re avrebbe presentato i candidati a norma del concordato esistente; i vescovi delle provincie di cui erano scomparsi i principi, li nominerebbe il Papa direttamente, facendone conoscere i nomi al Re prima di preconizzarli: i vescovi assenti potrebbero ritornare, eccetto alcuni per ispeciali circostanze personali o locali. Si conserverebbero intatti i beni delle mense.
Roma non mostrossi aliena dal riformare alcune circoscrizioni diocesane: ma non ammise l’exequatur per le bolle pontificie nè il giuramento.
Ma appena si ebbe contezza nel pubblico della lettera scritta dal Sommo Pontefice al Re e della propensione del Re a secondàrne i voti, gli anticlericali si posero in agitazione. In Parlamento, il 25 aprile, alcuni deputati rinfacciarono al Governo la missione Vegezzi, accusandolo di venire a patti col Pontefice e sostenendo che la vacanza delle diocesi non era di alcun danno. Il giornalismo settario e le logge massoniche fecero eco; per tutte le città d’Italia si tennero assemblee tumultuose nelle piazze, nelle osterie e nei teatri per protestare.
Questo moto piazzaiuolo e anticlericale incoraggiò quei ministri che già erano disposti. Nel Consiglio, Natoli, Vacca, Petitti e Sella non vollero transigere sul giuramento e sul regio exequatur, e prevalsero.
Il Vegezzi, il 2 giugno, portò a Roma queste condizioni, che egli stesso confessò al cardinale Antonelli non essere accettabili. Tale fu pure il giudizio di una speciale commissione di cardinali. La Santa Sede tuttavia propose ancora che si venisse alla nomina dei soli vescovi del regno Sardo, e al ritorno di quelli esiliati. Il Vegezzi rispose che ne avrebbe informato il suo Governo; e il 22 giugno, nell’ultimo incontro del Vegezzi col cardinale, quegli ebbe a dire risultargli, dalle risposte ricevute da Firenze, che il governo persisteva nelle sue ultime proposte, e che avrebbe solamente acconsentito al ritorno dei vescovi esigliati, tranne alcuni. Così cadde ogni trattativa.
II.
Il presidente del Consiglio, Ricasoli, succeduto al Lamarmora, lo fece andare a Firenze. Nel cordiale incontro al palazzo Pitti, D. Bosco, fermatosi in mezzo alla sala, prima di sedersi, dichiarò:
— Eccellenza! Sappia che D. Bosco è prete all’altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e come è prete in Torino cosi è prete a Firenze, prete nella casa del povero, prete nel palazzo del Re dei ministri.
Ricasoli cortesemente gli rispose che stesse tranquillo, poichè nessuno pensava di fargli proposte che fosssero contrarie alle sue convinzioni. Ciò detto ambidue sedettero e si entrò in argomento.
Don Bosco non ricusò, per fare del bene, di cooperare alla buona riuscita della missione Tonello, nel modo che ad un privato conveniva, scrivendo o parlando a personaggi eminenti che avevano per lui deferenza, ma prese anche a dimostrare come il governo, in ossequio alla Convenzione di settembre, avesse interesse a non opporsi in modo alcuno alle nomine che farebbe il Papa, perchè altrimenti era lo stesso che dichiarare la Convenzione un trattato illusorio.
Il ministro ne convenne e mentre si mostrava premuroso di entrare nelle viste di D. Bosco, fu chiamato ove il Re stesso in persona presiedeva per questo affare il Consiglio dei ministri. D. Bosco rimase solo in quella sala per lunga ora.
Finalmente Ricasoli tornò e gentilmente fece intendere a D. Bosco che il Consiglio dei ministri nulla avesse in contrario alla elezione dei vescovi, ma era però conveniente trattar prima colla Santa Sede della circoscrizione della diocesi, incorporando a poco a poco in forme da prestabilirsi alcune più piccole alle più grandi; ossia abolendo i vescovadi di poca importanza.
Don Bosco rispose che neppure indirettamente non avrebbe mai preso impegno di trattare con una simile condizione; non toccava a lui dar consigli al Santo Padre; nè era cosa onorevole per il Governo intromettersi in questioni che farebbero vedere a tutto il mondo come si tenesse la giurisdizione dei Pontefici. Se i ministri la intendessero diversamente, essere egli costretto a non accettare quel fiducioso ed onorevole incarico; invece di andare a Roma sarebbe tornato e rimasto a Torino.
Ricasoli lo prego di attendere per qualche istante; ritornò in Consiglio e fece deliberare non dovesse pensarsi per allora all’abolizione di nessun vescovato; ma ad aprire le pratiche per le diocesi vacanti! Infine il ministro raccomandò a D. Bosco che andato a Roma si mettesse in relazione con Tonello, e lo appoggiasse per quanto poteva. D. Bosco, udita la risposta, ne fu