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310 IL BUON CUORE


Educazione ed Istruzione

Impressioni lauretane

(Dal Corriere d’Italia).

Mentre l’automobile filava rapido sulle snelle, dirette strade della Marca anconitana che salgono e scendono come bianchi nastri tesi sui dossi dei colli succedentisi per la distesa della zona adriatica, io riandavo tra me e me la lunga serie degli studi che rammentavo d’aver letto circa l’autenticità della Santa Casa: vi ero diretto, in una bella mattinata estiva, trionfante di verde e di azzurro, sotto il sole che sembrava congiungere in una atmosfera luminosa, terra, mare, cielo; ed era ben naturale che anche nella mia mente si destassero agili ricordi di tutto quanto si rannodava al tema della mia gita, alla meta dei miei pensieri.

Chi, tra i cattolici un po’ colti, non conosce la polemica lauretana, suscitatasi intorno alle due opere più recenti e diffuse, quella dello Chevalier e quella dell’Eschbach? Essa ora tace; ma la sua letteratura rimane, perchè vi hanno partecipato tutte le nostre migliori riviste storiche, non ho bisogno di dire in qual senso; e rimane a testimonio della superiorità di spirito colla quale tra i cattolici ormai si tratta la critica che è la fiaccola agitata a illuminare le tenebre della storia; una fiaccola che a certuni par sempre destinata ad appiccare il fuoco da qualche parte, o per lo meno ad affumicare e ad offendere memorie sacre e venerande; ma che invece, portata bene, ritta, alta, da gente che se ne voglia valere per veder meglio e non per altro, se anche fa sparire di tanto in tanto qualche illusione ottica, e ci rivela il vuoto là dove noi eravamo abituati a credere che esistesse qualche cosa, getta però dappertutto sprazzi di luce, che danno maggior risalto ai contorni della tradizione, definendoli nella loro linea precisa e sicura.

Io a Loreto, confesso, non ero mai stato: m’ero sempre accontentato di vedere la Santa Casa nella riproduzione fedele che ne abbiamo a Milano, laggiù a San Vittore; nè la dimenticanza era certo dovuta a qualsiasi ragione che avesse attinenza colla questione storica: Loreto non ha nulla da perdere nel concetto della cristianità dall’esito della disputa intorno alla credibilità del racconto del Teramano, perchè uno degli argomenti maggiori che a tale racconto si oppone, cioè l’essere la chiesetta dedicata a Maria ricordata in documenti anteriori alle date delle traslazioni, non fa che risospingere oltre, nei secoli, gli inizi della venerazione popolare e riconsacrare in una maggiore antichità il culto che su queste incantevoli spiaggie la Vergine ha raccolto in uno dei santuari più illustri del mondo.

No, io a Loreto non ero mai stato, semplicemente perchè non ne avevo mai avuto l’occasione; e ci andavo ora portato come in un turbine dalla macchina trasvolante di poggio in poggio, con tanto maggior interesse: mi pareva di pagare finalmente un tributo alla celeste Regina delle Marche.

Man mano che l’automobile saliva, rallentando, il collle sacro, sulle cui argille azzurre e dorate gli olmi gli olivi slanciano le loro cime mosse dalla perpetua brezza marina, tutt’intorno si disegnava il panorama magnifico; la mia guida mi segnava Castelfidardo, Osimo, Camerano, Sirolo, Numana, Recanati; e da questi gruppi caratteristici d’abitanti, l’occhio scendeva subito all’arco della costa, in cui l’Adriatico s’adagia come un queto lago, protetto in fondo dal poderoso sperone del monte Comero.

Il santuario, è là, in alto, e la prima impressione che se n’ha è di una costruzione robusta e grandiosa, con qualche tono militare, che fa correre la mente ai tempi in cui da questi poggi le popolazioni scoprivano, atterrite, profilarsi nel mare le navi turchesche, e dovevano pensare quasi più ad erigere solidi baluardi che non a coltivare i campi fecondi: nè l’impressione sconviene affatto, e piace anzi ritrovare nel tempio eretto alla donna purissima del Cristianesimo, l’impronta della lotta contro la violenza brutale e lasciva dei figli del Corano.

Del resto, si tratta di un’impressione, e nulla più: di una impressione che cede subito quando l’occhio si ferma sulla grande cupola bramantesca che si slancia arditamente al cielo; ancora il visitatore non sa che tesori di marmi e di colori essa copra e protegga; ma prepara, colla sua linea, superba e svelta insieme, a qualche cosa di grande.

Quando l’automobile s’inoltra nelle vie della cittadina, il panorama scompare: e allo spettacolo della natura se ne sostituisce presto uno di tutt’altro genere.

Nella piazza della Madonna l’automobile si ferma: e scendendo, dopo che l’occhio ha corso per un momento lungo le linee maestose del palazzo apostolico che chiudono la piazza da due lati, lo fermate sulla statua in bronzo di Sisto V, che è piantata a sinistra della porta d’ingresso della basilica: il grande pontefice è seduto benedice; la sua testa è meravigliosa per la forte modellatura e fa dire che l’artista deve avere sentito nel suo soggetto non solo il pontefice al quale Loreto dovette nel 1587 il compimento del tempio magnifico, la erezione in vescovado, non solo il figlio illustre di terra anconitana, ma anche e più il grande papa che lasciò un’orma così profonda nella storia della Chiesa e dell’Italia.

Come volontieri dinanzi ad un’opera d’arte in cui l’autore abbia impresso ed espresso qualche cosa di non fuggevole, ci si arresta a riflettere, a ricordare: lì mi accadeva di subire una particolare suggestione incontrando sulla soglia della casa dell’umile Vergine di Nazareth, a cui ci s’avvicina con un’aspettativa di dolcezza e di pietà, la maschia figura d’un uomo che è rimasto nella memoria dei posteri cinto da un’aureola di severità e di forza; suggestione che nasce però insieme dal contrasto apparente e dall’armonia reale; da quella armonia per cui tutta la storia della Chiesa in mezzo alle più fortunose vicende, alle persecuzioni come agli splendori, si concentra e si avviva nella sem-