Pagina:Il mio cuore fra i reticolati.djvu/151

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Il cortile della caserma era pieno di sole. Pareva una gran caldaia dove la luce bolliva come un liquido che non dà schiuma. Il pomeriggio di giugno pesava sul lastricato di sassi come un grosso materasso incandescente che vi si fosse coricato per soffocare qualcuno.

Solo una parete era fasciata da una sottile striscia d’ombra, e in quella striscia le sessante reclute, vestite la mattina in tela grigia, nuova e rigida come della latta — grigio-verde: abito di luce — si sdraiarono, appoggiando la schiena al muro, e si dedicarono.... ad aspettare.

Chi prese sonno, chi accese un sigaro, chi si pose a chiacchierare sottovoce col compagno, chi a guardare inebetito attorno a sè.

Un caporaletto, che la sapeva lunga, sentenziò:

— Eh, sotto le armi, ragazzi miei, il più del tempo si passa ad aspettare. S’aspetta il superiore, si aspetta l’ordine, s’aspetta il contrordine, s’aspetta il rancio, si aspetta la cinquina, s’aspetta il cambio, s’aspetta la prigione, e così via. È il servizio più importante, per noi di truppa.

Difatti aspettarono quasi tre ore un ordine che non venne. Cioè, venne... l’ordine di tornare in camerata. Questa fu la prima istru-