Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/122

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229-258 CANTO III 67

ché li conosco, e il nome potrei di ciascuno ben dirti.
230Ma due veder fra loro pastori di genti non posso,
Càstore, sperto a domare cavalli, ed il pugile forte
Polluce, i miei fratelli, che meco die’ a luce la madre.
O da le belle contrade di Sparta non son qui venuti,
oppur sono venuti sovresse le rapide navi,
235ma piú non voglion qui la zuffa affrontare e i guerrieri,
pel vituperio e la grande vergogna che tutta mi copre».
     Cosí disse. Ma quelli stringeva di già l’alma terra
in Lacedèmone appunto, dov’essi ebber prima la vita.
     Per la città, frattanto, gli araldi una coppia d’agnelli,
240vittime sacre, e il vino recavano, il dono dei campi
giocondo, entro una pelle di capra; e il cratère fulgente
Idèo, di Priamo araldo, recava, ed i calici d’oro.
E al vecchio s’appressò, gli volse cosí la parola:
«Sorgi, figliuolo di Laomedonte, t’invocano i duci
245dei cavalieri troiani, degli Achei coperti di bronzo,
che tu discenda al campo, per stringere patti solenni:
ché Menelao, diletto campione di Marte, e Alessandro,
per questa donna, da soli verranno alla prova dell’armi;
e chi trionferà, la donna quegli abbia, ed i beni.
250E gli altri poi, con patti si stringano e giuri solenni:
che noi restiamo in Troia ferace, che tornino quelli
ad Argo ed all’Acaia, che vanto ha di femmine belle».
     Disse. Il vegliardo fu corso da un brivido; e impose ai compagni
di preparare il cocchio; né quelli fûr tardi al comando.
255Priamo quindi salí sul cocchio, le redini tese,
e a lui d’accanto ascese Antènore il fulgido carro,
e verso la pianura diressero i pronti corsieri.
     E quando al campo giunti fûr poi, tra gli Achivi e i Troiani,