Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/78

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587-610 CANTO I 23

sebbene tanto io t’amo, soccorrerti allor non potrei,
per quanto io mi crucciassi: ché duro è contender con Giove!
Anche quell’altra volta ch’io volli difenderti, a un piede
590egli mi strinse, e giù mi scagliò dalla volta del cielo.
Rimasi un giorno intero per aria; e al tramonto del sole,
in Lemno caddi; e poco di spirito ancor mi restava:
la gente Sintia qui mi raccolse, dov’ero caduto».
     Disse cosí. Sorrise la Dea dalle candide braccia,
595e sorridendo prese la coppa che il figlio le offriva.
E, cominciando allora da destra, un dolcissimo vino
a tutti i Numi Efèsto mesce’, che attingea dal cratère;
e inestinguibile riso si sparse fra tutti i Celesti,
quando cosí nella sala lo videro tutto in faccende.
     600Dunque, tutto quel dí, sin che il Sole fu giunto al tramonto,
stettero a mensa, e niuno restò con la brama del cibo,
né della cetera bella che Apolline stesso sonava,
né delle Muse, che al canto spiegavan la voce soave.
E poi che fu sommersa la fulgida vampa del sole,
605alla sua casa ognuno tornò dei Celesti, a dormire,
dove a ciascuno aveva costrutta la solida casa
l’inclito Efèsto, senno scaltrissimo ed agili braccia.
E Giove andò, l’Olimpio che i folgori scaglia, al suo letto
dove solea dormire, qualor lo vincesse il sopore.
610Quivi dormiva; ed Era dall’aureo trono a lui presso.