Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/258

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170-199 CANTO XXIII 255

170Ed anfore di miele vi pose, di liquido ulivo,
presso al giaciglio poggiate. Poi, quattro superbi cavalli
sovra la pira, a furia sospinse, con gemiti lunghi.
Aveva nove cani da mensa, il figliuol di Pelèo:
egli ne prese due, li sgozzò, li gittò su la pira.
175E dodici dei Teucri magnanimi floridi figli
col bronzo anche trafisse, tanto era feroce il suo cuore.
E a pascer poi vi spinse la ferrea forza del fuoco;
e pianse quindi, a nome chiamando il compagno diletto:
«Pàtroclo, a te salute, sia pur nella casa d’Averno:
180ché tutto ora ho compiuto per te quello ch’io ti promisi:
dodici io ti promisi dei Teucri magnanimi figli,
che il fuoco adesso insieme divora con te. Non al fuoco
Ettore poi darò: lo darò, ché lo sbranino, ai cani».
     Queste minacce faceva. Ma d’Ettore intorno alla salma,
185non contendevano i cani: da lui notte e giorno Afrodite
li discacciava, e l’ungeva con olio fragrante di rose,
ché non lo straziasse, traendolo in volta, il Pelíde.
E Febo Apollo addusse sul corpo un ceruleo nembo,
sopra la terra, dal cielo, che tutto quel luogo nascose
190dove era stesa la salma, perché coi suoi raggi anzi tempo
non distaccasse la pelle sui tendini e i muscoli il Sole.
     Né bene ardeva ancora la pira di Pàtroclo morto.
E Achille pie’ veloce divino, ebbe un altro pensiero.
Stando in disparte alla pira, la prece rivolse a due venti,
195Zefiro e Bora, ad essi promise fulgenti ecatombe.
E molto li pregò, da un’aurëa tazza libando,
d’accorrer, ché piú presto bruciasse i cadaveri il rogo,
e con piú furia i tronchi ardessero. Ed Iri veloce
che le preghiere udí, corse ai venti, a recare il messaggio.