Pagina:In faccia al destino Adolfo Albertazzi.djvu/102

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dito andando alle Grotte senza di lui, avevo fatto la pace; ed egli interveniva ai miei colloqui con la sorella, e pretendeva lo aiutassi a incollare o ingommare. Saldo su le gambe, sicuro nel grembialone come in una corazza, col pennello in resta, guai a non ubbidirgli!

Ma pur troppo io ero solo con me la mattina presto, allorchè mi pareva più difficile riprendere la vita.

— Poltrone! — dicevo a Mino. — Ed egli:

— Più poltrona Ortensia! Diglielo a lei, che si alzi prima; lei è più grande.

Non glielo dissi a Ortensia; ma essa ci udì, e diventò mattiniera.

Ai primi albori, dalla finestra spalancata della mia camera, io vedevo ogni giorno un chiarore tenue, come di neve lontana nella notte profonda. E più sollecita di ogni altro alato, una capinera mandava il primo richiamo da lungi. Di dove mai? Nessuno rispondeva: essa ripeteva più forte. Nessuno; e ripeteva più forte, approssimando. D’improvviso, dal tetto o da un abete, sorgeva nitida, vigorosa, breve, la risposta.

Si ritrovavano così le piccole creature, e sol due, risvegliate nel mondo immenso quando ancora tutti dormivano e tutto dormiva, e forse rabbrividendo alla frescura sogguardavano con gli occhietti pavidi al cielo, fuorchè da una parte, ancora notturno. Nelle loro voci era un’ansietà di letizia non consentita a pieno, una trepidazione, uno smarrimento quasi di paura. Piccole, innocenti creature, sol due nel mondo immenso! Il giorno volevamo; la luce, il sole! Quanto tardava!

Ma ecco il suono delle campane mattutine....