Pagina:In faccia al destino Adolfo Albertazzi.djvu/116

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Ora quasi mani invisibili con infantile divino sollazzo rovesciavano dal cielo secchie a furia; fitta fitta grossa grossa, scrosciava la pioggia: precipitava; piegava ramoscelli e rami; penetrava tutto, si raccoglieva in rigagnoli, correva, allagava; e sotto quel chiasso il rombo sinistro del fiume e il fragor della cascata.

La breve zona asciutta, ove eravamo, assumeva in tale diluvio, in tale violenza, un’apparenza di protezione miracolosa; e a guardar per la grata nell’oratorio, veniva da quel silenzio di là dentro, da quel senso di chiuso, da quella penombra in cui giaceva il Cristo di rozza pietà, una promessa di pace contro tanto fracasso.

Ortensia guardò là dentro anche lei; poi sorrise a riveder l’intemperie.

— Come si sta bene qui! — Ascoltava.

A me una voce diceva: «Per due anime concordi c’è sempre un asilo».


E il giorno dopo:

— Che piova un poco, pazienza! Ma così! — Ortensia batteva i piedi per l’ira. Soggiunse:

— E ora di finirla! Non ha desiderio d’un po’ di sole anche lei?

Ebbene, sì, anch’io desideravo il sole! Con un piacere, con una letizia lo desideravo, quale non avevo provata forse mai in mia vita.

Oh il sole! il sole!

Comprendevo la gioia che del sole avrebbe Ortensia; e dal medesimo nostro desiderio apprendevo che la nostra consuetudine era divenuta l’affinità spirituale da me voluta; io sentivo che finalmente godrei del sole come Ortensia, con Ortensia.