Pagina:In faccia al destino Adolfo Albertazzi.djvu/120

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vane! — confessò la donna intanto che riprendeva il sentiero. — Ma sì! Ci vuol altro!

Per dire qualche cosa io dissi:

— Hai sentito? Andiamo, che è tempo perduto.

— Nossignore! — esclamò Ortensia. — Io ci credo!

Così proseguimmo; lei dimentica del discorso di prima, e io tornandoci in segreto, quasi per forza, e con un sentimento di profanazione.

Aveva appena diciassette anni: che le avevano appreso i sogni? le letture? le compagne? l’esempio di Anna? Quanto sapeva, insomma...., dei piaceri e delle brutture dei sensi?

Possibile che dell’amore non presentisse quei diletti che il mistero ingrandisce alla fantasia nelle prime commozioni del sangue? Possibile non avesse pensato che certe «brutte cose» diventano lecite e desidera-bili solo per la benedizione del prete e per il vincolo della legge?

Che turbamento avevano lasciato nell’animo suo le audacie della Melvi con Roveni? Che cosa, a quelle parole, terribili per me e sollecitatrici per lei: «C’è Ortensia....», aveva immaginato? un bacio?... soltanto? Ciò che poteva aver immaginato essa cercavo d’immaginar io; e ora mi pareva eccessivo il mio pensiero, e ora limitato troppo; e avrei voluto chiarirmi con inchieste che non sapevo nè dovevo fare: il senso di profanazione s’accresceva entro di me a un ribrezzo quale per una indagine vergognosa.

La guardavo. Sì, sì, era affatto dimentica del discorso di prima: il sole le splendeva nei capelli; cercava, bambina, il trifoglietto dalle quattro foglie.

Io, uomo e corrotto, non sapevo neppure perchè