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CAPITOLO IV.


Quell’incantevole regione, che gli antichi appellarono la Campania Felice, fu per un lungo volgere di tempo il confine della confederazione sannita. Ma un suolo tanto prediletto dalla natura, ove fioriscono nel corso dell’anno due primavere (L. Anneo Floro, denique bis floribus vernat) e che fu il sospiro di svariati popoli e di molti conquistatori, un suolo di cui, poetando, scriveva il Niccolini:

«  . . . . . . Oh chi vi nacque,
Sotto qual cielo non sentì l’esiglio?»

non poteva non attirare la cupidigia dei confinanti Sanniti. E infatti verso il 330 di Roma uno stuolo di Sanniti Caudini si versava, avido di conquista, sulla contrada che or si dimanda Terra di Lavoro, e che allora si tenea per gli Etruschi.

Costoro da lunga pezza, ammolliti dall’ozio, erano di assai degenerati da quei loro maggiori, che, vittoriosi degli Umbri, entrarono innanzi a tutti i popoli dell’antichità in potenza e virtù militare. Essi Etruschi traevano una metà del lor tempo assisi a lauti banchetti, anteponendo ad ogni altra cosa gli ornamenti del lusso; e le loro donne erano assai poco ritenute nei costumi, e si piaceano solo di adornarsi, e cianciare di vesti, di profumi e di collane. Soleano anche in quel tempo gli Etruschi deliziarsi di scenici ludi e di quelle mute rappresentazioni che ai nostri tempi si dissero pantomime. E furono anche i primi a istituire i giochi gladiatorii, i quali primamente limitaronsi a pugne incruente, e forse riuscivano giovevoli come esercizio di scherma e di ginnastica; ma in processo di tempo degenerarono in brutali duelli e disumana carneficina, di cui presero atroce diletto i romani, allorchè si fecero a conculcare i più sacri dritti dei popoli debellati.