Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/406

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384 illustri italiani

franchigie gli concedevano, mandavagli ordine d’andarsene nel Ponto; presso a poco siccome ai dì nostri nei due regni d’Italia vedemmo esser relegati qua e colà economicamente, come ora si dice, vescovi cardinali, preti, spiaciuti a chi comanda.

Non rifinano i commentatori e i biografi di almanaccare la causa di quella disgrazia. Se la cerchiamo in lui, egli ci indica i suoi versi lascivi, e un errore sul quale mai non si spiega. Ma i versi lascivi erano opera giù antica, se anche non fossero stati vizio comune a troppi poeti d’allora, e fino ai più dilicati, quali Tibullo e Virgilio. L’Arte d’amare era un vero codice di libertinaggio, ma dopo compostola, quante volte non era egli passato, in qualità di cavaliere, davanti ad Augusto censore, che doveva appuntarne la condotta?1 Ma che, se lo stesso Augusto, a tacere gli atti, fece versi da disgradar quelli d’Ovidio?

La causa vera del suo esiglio era nota a tutti in Roma2 eppure nessuno ce ne parlò, forse perchè i diarj d’allora ricevessero la parola del principe. Resta dunque il campo alle congetture.

È vero ch’egli fosse o complice o correo delle lascivie di Giulia, figlia d’Augusto? Ovidio si paragona ad Atteone, che fu lacerato dai cani perchè vide Diana al bagno, assicurando però non aver confidato il segreto neppure al più stretto amico. Forse dunque seppe un delitto, una tresca di Giulia e non osò rivelarla ad Augusto, se pur non vi tenne mano3. Ma costei era stata esigliata, nel 752. di Roma, nove anni prima d’Ovidio. È vero ch’egli sorprendesse Au-

  1.                Carminaquo edideram, cum te delicta notantem
                        Præterii toties jure quietus eques.
                   Ergo quæ juveni mihi non nocitura putavi,
                        Scripta parum prudens, nunc nocuere seni?

    Trist. II.

                   At memini, vitamque meam moresque probabas
                        Illo quem dederas prætereuntis equo.

  2.                Caussa meæ cunctis nimium quoque nota ruinæ
                        Judicio non est testificanda mihi

    Trist. IV, 10.

  3.                Vive tibi, quantumque potes, prælustria vita,
                        Sævum prælustri fulmen ab arce venit....
                   Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem,
                        In qua debueram forsitan urbe forem.

    Trist. III, 4.

                   Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam
                        Excepto quod me perdidit, unus eras
                   Id quoque si scisses, salvo fruerere sodali.

    Trist. III, 6.