Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.2.djvu/187

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appendice d 177

loda volontieri lo zelo dell’osservatore, ma supplica l’E. V. di voler nell’alto suo intendimento considerare che, quando per l’Istituto si crede cosa ben fatta l’invitare a questa nobile impresa non solo i dotti del regno Lombardo Veneto, ma di tutta insieme l’Italia dal piè delle Alpi fino alla punta di Lilibeo (perciocchè fra questi due termini è sparsa la gran famiglia dell’italiana letteratura, e tutti scrivono la stessa lingua, e tutti sentono il vivo bisogno dì governarla con una comune universale legislazione); altrettanto inconsiderata e pericolosa riuscir potrebbe la pubblicazione di questo invito, se prima non si risolve maturamente il quesito dei proposti concerti coll’Accademia della Crusca, o dritta o torta che sia la lor pretensione, si stimano i soli e legittimi arbitri della favella. L’invitar dunque i dotti d’Italia avanti di venire ai concerti con gli Accademici, piglierebbe sembianza di poca stima verso di essi; sarebbe un dir loro svelatamente che noi li teniamo non primi, ma secondi, ma ultimi nella cognizione di questa materia. E allora non solo non vorranno associarsi al lavoro dell’Istituto, ma verranno a peggio, spargendone mala voce-, e disturbandolo per tutti quei mezzi che il rancor letterario suole somministrare. Prima dunque di dar l’invito alla stampa, si esamini se torni bene il concertarsi cogli Accademici.

“Ognuno che, a conseguir qualche fine, cerca di collegarsi, pria di stringere società considera seco stesso i costumi, la qualità, il carattere del collega a cui ha volto il pensiero, e le forze da porsi in comune, e i vantaggi che possono risultarne. Sarebbe invidiosa e somma ingiustizia il negare l’infinito bene che ha fatto all’italiana letteratura quella illustre Accademia, raccogliendo tutto in un corpo il grande tesoro della divina nostra favella. Più che cento furono gli Accademici, che in diversi tempi concorsero alla formazione di quella grand’opera; fra i quali amarono di veder segnato il loro nome tre principi cardinali di casa Medici, ed anche un granduca. Ciò tutto vero. Ma l’interno ed occulto spirito che diresse un tanto lavoro, quale si fu? Lo spirito di nazional pretensione; la mira di stabilire il dialetto toscano per lingua universale italiana. E non dispiaccia a V. E. che si sveli istoricamente tutto questo odioso mistero, onde l’illuminato suo discernimento conosca meglio quel che appresso si avrà da fare.

“All’assoluta dittatura dell’universale idioma italiano, affidati alla prevalente bellezza del loro dialetto, aspirarono i Fiorentini fino dai remoti tempi di Dante; il quale mal sofferendo quest’arroganza, scrisse in latino il trattato della Volgar Eloquenza, e biasimò fortemente e derise la pretensione dei suoi Toscani, che alla lingua illustre, creata dagli scrittori e comune a tutta l’Italia, tentavano di sostituire il solo dialetto particolare della Toscana. Il dantesco trattato, di cui si aveva certa contezza per le cronache del Villani, giacque per ben due secoli seppellito: ma finalmente dissotterratosi dal Corbinelli in una biblioteca di Padova, e messo in volgare dal Trissino vicentino, gli occhi de’ letterati italiani di qua dell’Arno e di là si rivolsero tutti sopra il gran punto della questione, se,