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116 viaggio al centro della terra


Una processione d’ombre moventisi si svolse sulle pareti oscurate.

Io non osava più battere palpebra temendo di perdere un atomo della luce fuggitiva e ad ogni istante mi pareva ch’essa mi mancasse e che il buio invadesse.

Alla fine un’ultima luce tremolò nella lampada: la seguii, l’aspirai collo sguardo, concentrai sovr’essa tutta l’attenzione de’ miei occhi, come sull’ultima sensazione di luce che fosse loro concessa, a rimasi avvolto nelle immense tenebre.

Mi sfuggì un terribile grido. Sulla superficie della terra, in mezzo alla più profonda notte, la luce non cede mai del tutto i suoi diritti; è diffusa, è sottile, ma per poco che ne rimanga, la retina dell’occhio si avvezza a percepirla. Qui al contrario nulla; la tenebra assoluta faceva di me un cieco nel vero senso della parola.

Allora la mia testa si smarrì; tesi le braccia innanzi e mi diedi a fuggire tentone precipitando i passi a casaccio in quell’inesplicabile labirinto, discendendo sempre, correndo attraverso la crosta terrestre, come un abitante delle regioni sotterranee, chiamando, gridando, urlando, pesto contuso contro le sporgenze delle roccie, cadendo e risollevandomi insanguinato, cercando di bere il sangue che mi innondava il volto e aspettando sempre che qualche muraglia impreveduta offrisse alla mia testa un ostacolo perchè vi si spezzasse contro!

Dove mi condusse quella corsa insensata? Lo ignorerò sempre. Dopo molte ore, sfinito di forze, caddi come una massa inerte lungo la parete e perdetti ogni sentimento dell’esistenza.


XXVIII.

Risensando, il mio viso era bagnato di lagrime. Non saprei dire quanto durasse quello stato d’insensibilità, poichè non mi rimaneva alcun mezzo di rendermi conto del tempo. Non mai solitudine fu pari alla mia, abbandono così completo! La caduta mi aveva fatto perdere molto sangue e me ne sentivo sempre inondato. Come mi doleva di non essere morto, «e che la cosa fosse