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l’edera 131

rante il pomeriggio ella aveva pensato due o tre volte a Niculinu. Meno felice di lui che diceva di ricordare la luce e i colori come un sogno lontano della sua infanzia, ella non ricordava nulla dei suoi primi anni: non una voce saliva per lei dalla profondità oscura della sua origine, non una figura si disegnava nel suo passato.

— Io non ho padre, nè madre, nè parenti, ella pensava nel suo delirio. — I miei benefattori sono stati i miei nemici. Nessuno piangerà per me. Io non ho che lui, come lui non ha che me. Siamo due ciechi che ci sosteniamo a vicenda: ma egli è più forte di me, e se io cadrò egli non cadrà...

E le sembrava che realmente ella e Paulu fossero ciechi: ella aveva gli occhi bianchi e le palpebre pesanti come quelle di Niculinu; e davanti a sè non vedeva che una muraglia rossa e infocata il cui riverbero la bruciava tutta. Rumori misteriosi le risuonavano entro le orecchie; credeva di sentire ancora la pioggia scrosciare contro la porta, e il tuono riempiere la notte d’un fracasso spaventevole: l’uragano assediava la casa, voleva prenderla d’assalto, come una torma di grassatori, e tutto distrarre e devastare.

Poi una figura uscì dalla camera del vecchio, strisciò lungo la parete, sedette accanto al focolare. Annesa non poteva volgersi, ma sentiva il fantasma al suo fianco: sul principio le parve fosse il cieco, ma d’un tratto ella si sentì sfiorare la mano da una mano dura e calda che le sembrò quella di Gantine. La mano salì fino al viso di lei, glielo