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mamma, fino ad ottenere dalla zia il permesso di indossarlo. Ma Caterina sembrava così smaniosa di rendergli servigio, gli diceva «dammelo» con tal grazia carezzevole, che egli temeva di offenderla respingendo la sua offerta.

— Dammi, — ripetè Caterina.

Egli depose la scatola sul davanzale.

— Vorrei prendere la cravatta, — mormorò.

— Vieni dentro, — ella disse, tutta seria, — ti farò vedere dove lo metto. Entra: sono sola in casa. La mamma e la nonna sono andate dal dottore. Va di là, alla porta, o vuoi entrare qui? Ti do una sedia.

Ma egli sorrise, sdegnoso: non aveva bisogno di sedie per scavalcare una finestra! S’arrampicò, sollevò una gamba, fu dentro, nella cameretta malinconica. Dalle fotografie giallognole le faccio sbiadite degli amici della Suppèi guardavano come dalle finestruole di una casa remota e triste.

Aiutato da Caterina egli aprì la scatola, e prese la cravatta verde a piselli rossi, che aveva tanto ammirato al collo di Marco. E siccome esitava a metterla, Caterina gli diede un consiglio!

— Mettila: quando sei vicino a casa tua la levi...

Ma egli scosse il capo con tristezza.

— Metti dentro, metti dentro, — disse, cacciandosi la cravatta in saccoccia, e chiudendo la scatola. — Dove la metti? Qui? In questo cassetto? E se la Suppèi la trova? Che dirà?

— Eh, crederà che Marco abbia portato qui il suo vestito, per impedire alla sua mamma di dartelo!