Pagina:La Italia - Storia di due anni 1848-1849.djvu/30

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supremo”. Onde, ad ovviare i sommi mali e rimettere gli ordini nell’antico assetto, quel solenne tranellatore cercò ricorrere a’ satanici espedienti della politica che avevagli procacciato nome si grande e fortuna anche più grande. E le gazzette tedesche pubblicavano articoli ricordanti Io episodio piemontese del 1821, o profetavano il vero sul carattere del meraviglioso pontefice, o ne dipingevano la mal ferma salute e la debolezza del senno. E il conte Lutzoff, ambasciatore austriaco in Roma, minacciava il Vaticano con severe parole, cui rispondevano i fatti nella occupazione di Ferrara. E molti emissarii, forniti d’oro e di perverse istruzioni, venivano spediti nelle Romagne e nell’alma città per sollevare i mali spiriti contro il nuovo governo e le oneste tendenze dei liberali che il sorreggevano. Il tristo e violento rimedio produsse contrarii effetti; e il popolo, in pria spensierato e solo bramoso di una vita più facile, si fece guardingo, salvò il paese e nella sua forza vide la possibilità d’innalzarsi.

La fama di Pio, accresciuta dallo amore di libertà e dal vivo entusiasmo che scalda con forza le menti immaginose degl’Italiani, eccitava una sommossa in Reggio, di Calabria, quindi il fuoco si appiccava in Messina e in Palermo. Quegli abitanti chiedevano le concessioni accordate ai Romani, cioè, la milizia cittadina liberalmente ordinata, le franchigie del pensiero, leggi non falsate, una consulta non serva nè corrotta; invocavano perciò novità di comando, reggimento a seconda dei bisogni del secolo e l’attuazione di antiche e non tenute promesse. La città di Napoli faceva eguali dimostrazioni in modo pacifico e legale, gridando osanna al papa ed al re. Ma, le risposte del principe, incroiato nelle massime del dominio assoluto, erano lo invio di forze preponderanti in Calabria e in Sicilia, ove le fucilazioni, le prigionie, i massacri riescirono pel momento a temperare la libera ed onesta voce; erano le archibugiate e le cariche alla baionetta sull’inerme popolo napoletano, il quale, nella esaltazione delle sue poetiche speranze, non bramava altro che benedirlo principe umano, ed amarlo. Intanto il granduca Leopoldo, in Toscana, sopraffatto dalla paura, mettea fuor di prigione i cittadini colpevoli di stampe clandestine e di rumori di piazza, liberava il popolo dai birri, instituiva la guardi civica ad imitazione della romana, e prometteva altre importanti riforme governative. In Piemonte, dopo qualche irresolutezza — ch’era seconda natura nell’animo del re — si oprava il medesimo con intendimenti anche maggiori; e i tre Stati, sino a quel punto divisi, intavolavano un trattato di alleanza reciproca, una specie di lega ancor mal definita, ma che pure inaugurava la nobile idea di una confederazione italiana. Il re di Napoli, richiesto, respinse le trattative. I duchi di Parma e di Modena si collegavano coll’eterno nostro nemico. La ostinatezza di questi nel mal governo giovava anzi che nuocere alla causa comune; imperciocchè i malcontenti incontravano lietamente il martirio per un inno cantato a Pio IX, sorridevano nel pagare ammende per aver detto parole di elogio al nome dell’arciduca Leopoldo; andavano allegri in carcere od in esilio per aver fatto plauso a re Carlo-Alberto e alla Italia. E dovunque cotesti tre principi riformatori muovessero, erano universali le accoglienze, le luminarie, i corteggi, i cantici e le processioni di bandiere,