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— Abbiamo da percorrere molta via prima di giungere a Hossanieh.

— Non avete dei mahari?

— I mahari non impediscono alle fiere di uscire dai loro covi. Andiamo, Notis, andiamo.

— Hai ragione, Abd-el-Kerim, rispose il greco alzandosi.

Gettarono una manata di parà al wadgi, cinsero le scimitarre che avevano deposte in un angolo e strinsero la mano al basci-bozuk.

— Addio, Oòseir, disse l’arabo.

— Buona fortuna, amici miei, rispose il basci-bozuk. Che Allàh e il Profeta tengano lontani i leoni e le iene.

Arabo e greco salutarono gli astanti e uscirono dal caffè.

CAPITOLO II. — L’almea.

Le tenebre allora erano calate. Al nord, sulla cima delle creste del monte Auli, appariva la luna la quale vedevasi spandere un incerto chiarore al di sopra delle oscure boscaglie del Gemanje, e in cielo salivano le stelle che riflettevansi vagamente sull’azzurra e placida corrente del Bahr-el-Abiad. Alcuni Sennaresi ed alcuni Arabi gironzavano ancora o sedevano in mezzo alle vie o a ridosso ai muricciuoli delle capanne, fumando nel scibouk o nei narghilèh.

I due ufficiali scesero verso la riva presso la quale galeggiava una dahabiad a sei remi montata da alcuni barcaiuoli. Vi entrarono e si fecero traghettare alla sponda opposta, sbarcando ai piedi delle foreste, i cui rami giganteschi e fronzuti si curvavano graziosamente sulle acque.

— Dove sono i cammelli? chiese Notis.

— A cinquecento passi da qui, rispose Abd-el-Kerim, distrattamente.

— Hai preso con te il mio schiavo Takir?

— No, l’ho lasciato al campo onde preparasse la tua tenda.