Pagina:La fine di un regno, parte I, 1909.djvu/154

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ni, più conosciuto col nome di duca Proto. Il Petra era capo del quinto ripartimento nella direzione generale del debito pubblico; D’Urso era colonnello di marina e fratello di Pietro, ministro delle finanze, e Proto, deputato nel 1848 fra i più eccessivi, era andato in esilio e n’era tornato per grazia speciale di Ferdinando II. Il Caccavone li vinceva tutti. Più spontaneo, più arguto, più fresco nelle immagini, egli conosceva meglio le finezze, l’elasticità e i doppii sensi del gergo dialettale. Molti dei suoi epigrammi, raccolti da Achille Torelli in un volumetto che vide la luce in Napoli nel 1894, si leggono anche oggi con diletto. Se la forma n’è quasi sempre volgare, il pensiero è molte volte elevato e, strano a dire, certi suoi epigrammi pornografici hanno una base morale, perchè mettono in dileggio tipi e abitudini meritevoli di riso e di disprezzo. Il Caccavone era uno stoico e aveva degli stoici l’atticità del pensiero e delle immagini e le abitudini della vita. I suoi versi in lingua italiana sono bellissimi. Non rideva mai, aveva colore terreo, quasi cadaverico, vestiva dimesso, nè mostrava tenerezza soverchia per l’acqua e il sapone. La sua cattedra era il caffè di Europa. Morì vecchio, dopo il 1870. Gli epigrammi di D’Urso e di Proto erano più ingiuriosi che spiritosi, e quasi sempre ad hominem. Nessuno di loro creò tipi, come Taniello, don Lorenzo, la madre educatrice; nessuno scrisse epigrammi italiani in bellissimi versi e con immagini pure. Privi della naturale festività e obiettività del Caccavone, colpivano determinati individui e rasentavano l’insolenza, e il Proto, più stentato ancora del D’Urso, fu fatto segno lui stesso ad epigrammi atroci, ad umiliazioni non poche, da parte di quelli che egli colpiva, e infine a clamorose bastonate. Gli epigrammi del Proto sono stati raccolti in un volumetto da Salvatore Di Giacomo. Il duca non aveva ingegno, veramente: era artifizioso e scontorto in ogni sua manifestazione letteraria, retore, invido di chiunque si elevasse sulla folla, versipelle in politica e in arte. Sfucinavano epigrammi anche Cesare de Sterlick, Vincenzo Torelli, Federico Quercia, Luigi Coppola, Giuseppe Orgitano, Federigo Persico, Giuseppe Rosati e Felice Niccolini. Se ne ricordava uno contro Saverio Baldacchini, attribuito a Giacomo Leopardi e che diceva:

Ei le vergini canta, l’evangelo
Ama, le vecchie .... adora, e la mercede
Di sua molta virtude attende in cielo.