Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/217

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signor Cocle fu licenziato per imposizione del ministero liberale ed esiliato a Malta, scelse per confessore un oscuro prete, che aveva insegnato il sillabario nell’istituto Possina, e si chiamava don Antonio de Simone, che più tardi fu prelato, vescovo in partibus e cappellano di camera della cappella palatina di Napoli. Non si oppose all’esilio di Cocle, il quale per parecchi anni era stato creduto l’arbitro del suo cuore.

Ebbe per Filangieri più gelosia che riconoscenza. Quando giungevano da Palermo i dispacci del luogotenente, diceva a Corsi o a Zezon: Sentiamo che scrive Re Carlo. Filangieri, dal suo canto, gli aveva posto il soprannome di muro liscio, nel senso che non era possibile attaccarvi chiodo. Tranne per la sua famiglia, egli non dimostrò profondo e durevole affetto per alcuno, né alcuno fu sospettato, negli ultimi dieci anni, di esercitare dominio su lui. Nondimeno egli, in varie occasioni, dimostrò tolleranza per molti di coloro che gli stavano vicino e, più volte, chiuse gli occhi per non vedere e lasciò fare, e anche malamente profittare. Sapendo di aver rovinate molte famiglie per causa politica, le aiutava tacitamente, e ricorrendo a lui quando si aveva ragione e la politica non ci entrava, egli la dava subito, passando sopra alle difficoltà e, qualche volta, maltrattando o punendo chi si opponeva. Era di certo migliore della sua fama e il migliore della sua famiglia. Se non lo avesse dominato la paura, avrebbe forse tradotto in atto il suo programma di rigenerazione economica del Regno, ma il programma non fruttò che l’apertura di una sede del Banco di Napoli a Bari, ed alcuni fili telegrafici e poche bonifiche in Terra di Lavoro e nelle provincie di Salerno e di Puglia.

Gli ultimi anni del suo regno offrirebbero larga materia di studio allo storico e al patologo, perchè fu davvero uno stato patologico quello di Ferdinando II, che, pur non avendo fantasia, anzi essendo in lui troppo sviluppato il senso della realtà, era soggiogato da paure, le quali esaltavano la sua mente e gli rappresentavano pericoli ad ogni passo e ne paralizzavano l’azione.

I fervori religiosi di lui crebbero in maniera inverosimile dopo l’attentato di Agesilao Milano. Non contento di largheggiare in elemosine alle chiese, nè sodisfatto che un nuovo tempio venisse eretto in ringraziamento dello scampato pericolo e