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Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) II.djvu/163

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Del movimento il principe di Castelcicala informò il governo di Napoli con un rapporto diretto il 12 ottobre al ministro di Sicilia a Napoli, il quale gli rispondeva, il 19, che il Re aveva di suo pugno annotato sul rapporto: “Inteso degli ordini dati; inteso con soddisfazione per la pronta repressione; si preferisca però sempre il prevenire molto, per reprimere poco„.

Il movimento fallì, e le conseguenze furono nuove carcerazioni e disarmo; provvedimento quest’ultimo, al quale Maniscalco tenne più che ad ogni altro. Dei componenti del Comitato, alcuni furono arrestati; altri si salvarono emigrando, e fu tra questi Paolo Paternostro, che da poco era tornato dall’esilio.


Andato a vuoto quel tentativo, e procedendo le cose d’Italia con maggior fortuna, si tornò all’opera. Lo scoglio, contro il quale s’infrangeva ogni conato rivoluzionario, era Maniscalco. Tolto lui di mezzo, si credeva impresa facile compiere la rivoluzione. Sul suo capo si erano cumulati grandi odii ed erano odii di liberali e di facinorosi insieme, perchè Maniscalco colpiva con la stessa severità gli nni e gli altri, anzi, in verità, più questi che quelli. Dal giorno che, salito al trono il nuovo Re, Filangieri era divenuto presidente dei ministri, e Cassisi licenziato, il potere di Maniscalco non ebbe limite. Castelcicala lasciava fare; Spaccaforno, deposto dal suo ufficio di direttore dell’interno e passato alla Consulta, era divenuto il peggior diffamatore del suo vecchio collega. I membri meno scrupolosi del Comitato avevano immaginato parecchi mezzi per paralizzare Maniscalco, o addirittura sopprimerlo. Pensarono un momento di sequestrarlo col primo figliuolo, perchè egli aveva l’abitudine di fare delle passeggiate a cavallo fuori la città, accompagnandovi questo suo figliuolo, convalescente da una grave malattia. Per qualche tempo lo appostarono, ma il colpo fallì. Pensarono allora di farlo ammazzare, e non fu difficile trovare nei bassi fondi della mafia chi vi si prestasse. La mafia, che detestava Maniscalco, aveva indispensabili contatti col Comitato, perchè, purtroppo, quando si cospira, non si distingue. Si trovò la persona, e fu tal Vito Farina, soprannominato Farinella, giovinastro fra i più temerarii, vigilato dalla polizia per pessimi precedenti. Costui accettò l’incarico, mercè il compenso di dugento onze, cioè seicento ducati, e per parecchie domeniche stette ad aspettare la sua vittima nei pressi della