Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) II.djvu/325

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tolleranza: andò in pellegrinaggio alla grotta di Santa Rosalia al Monte Pellegrino, e nella festa della Santa assistette alla messa pontificale; anzi, assumendo la dignità di legato apostolico e giudice della Monarchia, montò sul trono in camicia rossa, e alla lettura dell’Evangelo snudò la spada per la difesa della fede cattolica. Tanto poteva in lui la forza dell’ambiente: un ambiente di vivace e quasi primitivo sentimento religioso, per cui il sacerdote, prete o frate, è ritenuto anche oggi in Sicilia non diverso, ma superiore ai membri degli altri ordini sociali. Il sentimento religioso fu una delle ragioni del successo della rivoluzione. Il popolino di Palermo attribuiva a Garibaldi un potere soprannaturale e lo riteneva persino congiunto di Santa Rosalia, la quale, secondo la tradizione, era figliuola di un conte siciliano, di nome Sinibaldo. La somiglianza fra i due nomi suggellava la credenza.


Prima del 27 maggio, quando i soldati regi partivano da Palermo, i marinai siciliani, saliti sulle antenne dei loro bastimenti, davano loro la malandata col grido fuori, fuori, assassini, per non più tornare; ma dopo quel giorno l’odio verso i soldati napoletani era di molto scemato, anzi erano frequenti i casi, nei quali questi fraternizzavano nelle bettole coi popolani e insieme gridavano: Viva Garibaldi. L’esercito borbonico; giova ripeterlo, era formato da una sola delle Sicilie, cioè dalla continentale: l’Isola godeva il privilegio di non aver leva, e nell’alta gerarchia militare erano pochi i generali siciliani. Ricorderò fra essi il Lanza, tenente generale e ultimo luogotenente; il conte Giuseppe Statella, che morì in Roma nel 1862 e il principe della Scaletta, morto egli pure a Roma, nel 1889. L’esercito napoletano era sinceramente odiato in Sicilia anche per questo, e l’odio veniva, con eguale sincerità, ricambiato da parte dei militari, che assumevano in Sicilia aria da conquistatori e prepotenti.

Dopo l’ingresso di Garibaldi, l’avvenimento maggiore nella città di Palermo fu la liberazione dei sette giovani nobili, arrestati in seguito alla tentata sommossa del quattro aprile. La loro prigionia durò sino all’ultimo momento, cioè fino al 19 giugno, nel qual giorno partì da Palermo il grosso delle truppe regie col generale Lanza. Quei prigionieri furono considerati come ostaggi di guerra, e corsero più volte il pericolo di essere fuci-