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provano infine tutte le mie vicissitudini politiche, dalle quali sono uscito senza lucrarne un centesimo, e senza ch’io debba ripetere da quelle l’attuale mia posizione sociale.

Facendo questa pubblicazione a riguardo dei miei concittadini di Roma, io tacerò tutte le altre fasi della mia vita politica, limitandomi ad osservare che non vi è atto il quale non possa essere giustificato dalle circostanze del momento, e per cui io debba arrossirne o pentirmene. Ho amato e venerato come faccio tuttora le due più grandi individualità dell’epoca nostra, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi; ma ho sempre conservato la mia indipendenza di carattere per seguirli ed avere con essi comune il lavoro, quando io lo credeva vantaggioso pel Paese; per ritrarmene, quando io lo reputava dannoso.

Mi ristringerò a parlare unicamente della parte che io ho preso nelle cose di Roma in questi ultimi undici anni, lungo i quali sono stato semplice spettatore di ciò che accadeva nel Regno d’Italia. Di una sola cosa però mi sono sempre preoccupato; tutte le mie agitazioni politiche di questi ultimi tempi hanno avuto uno solo scopo — lo dico con orgoglio — l’onore di Roma, la sua liberazione dal governo temporale del Papa.

Il mio concetto su Roma era oltremodo semplice; e vi è voluta tutta la raffineria della Calunnia, sparsa da gente interessata, per complicarlo, e farlo credere diverso da quello che era. Cercherò di spiegarlo con poche parole.

Non ho mai creduto alla efficacia dei mezzi morali per la liberazione di Roma; ma ho sempre ritenuto che fosse una quistione di forza, sia che questa venisse adoperata dai Romani all’interno, iniziando una insurrezione, sia ch’essa venisse adoperata — come infatti è avvenuto — dal governo italiano.

Ho sempre ritenuto che liberatasi Roma dal Papa