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in un modo o nell’altro, essa avrebbe sempre accettato, senza discuterlo, il Governo che trovavasi in Italia.
Ho creduto sempre che i Romani, e pel loro onore e pel loro interesse — sapendo quante difficoltà dell’elemento governativo incontrava la questione di Roma capitale — dovessero potentemente prestare la loro mente ed il loro braccio alla liberazione di Roma.
Conoscendo come la grande maggioranza dei Romani, nel fondo del suo cuore odiava il governo del Papa, ed anelava di unirsi all’Italia, io era fatto certo altresì che in Roma non difettavano i generosi — e i disgraziati fatti del 1867 lo provarono all’evidenza — i quali ove fossero stati ben diretti avrebbero potuto, quando favorevoli circostanze si fossero presentate, iniziare una insurrezione.
Ammetteva che la quistione di Roma fosse oltremodo grave e tale da dover essere trattata col più grande senno del mondo; e che l’iniziare un moto insurrezionale all’interno dovesse assolutamente dipendere dalle condizioni politiche in cui sarebbersi ritrovate l’Italia e l’Europa.
Da ciò ne avveniva per conseguenza necessaria che io non desiderassi a Roma una cospirazione la quale avesse ramificazioni di squadre, Capi-Sezione e Capi-Divisione; ma sibbene un Comitato composto di gente ardita, onesta ed indipendente, il di cui còmpito dovesse essere il raccogliere armi e munizioni, e tenere nota, nel più alto segreto, di coloro che fossero capaci di rispondere alla prima chiamata. Io avrei infine desiderato che questo Comitato si tenesse pure nei buoni rapporti di amicizia col Governo italiano, e fosse molto deferente ad esso; ma nello stesso tempo conservasse dirimpetto a lui la più grande indipendenza.
In Roma disgraziatamente avvenne altrimenti. Dopo la scissura del partito liberale del 1853, un Comitato si era ivi stabilito di persone che dalle file rivoluzionarie erano passate nella parte moderata, ed assunse