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questi due centri era l’insurrezione nel circuito delle mura di Roma, quando i necessari preparativi fossero fatti, e fossero sòrte circostanze favorevoli: quistione di gradazione di partito politico, nessuna.

Il concetto — per ciò che riguardava il Regno d’Italia — era altamente governativo; imperocchè non si creavano imbarazzi di sorta al Governo italiano, e si tentava la soluzione della quistione romana senza suo rischio alcuno; mentre per forza di circostanze esso ne avrebbe avuto tutto il profitto. Avevamo poi il grande vantaggio di rimanere in Italia nei limiti della legalità; e lo prova pienamente il fatto, che nè il ministro Ricasoli prima, nè il ministro Rattazzi dopo — quantunque ci avversassero con tutto il loro potere — ardirono dirci cosa alcuna.

Contro l’opera però di questi due centri si scatenarono tutte le passioni e tutti i privati interessi, e non piccola parte vi ebbero i fautori e gl’interessati del vecchio Comitato — che in quel momento era completamente estinto — al fine di paralizzarne l’azione. Noi tenemmo fermo fino al giugno del 1867; e quando vedemmo non poterci più opporre al sistema delle bande che il generale Garibaldi, sull’insistenza di altri, volle adottare, ci ritraemmo dall’opera incominciata, senza ira e senza rancore, come uomini che avevano adempiuto con coscenza il loro dovere.

Il sistema delle bande finì colla catastrofe di Mentana; catastrofe gloriosa, che portò anch’essa i suoi benefici frutti, e che mi lasciò forse oggi un rimorso per non averne fatto parte. Credetti allora pernicioso a Roma e all’Italia il sistema delle bande.

Cogli episodi, narrati di sopra del 1867, cessò completamente la mia ingerenza sulle cose di Roma; ma ebbi sempre viva la fede, che la forza delle circostanze avrebbe fatto presto o tardi riunire Roma all’Italia. Io vedeva con questo realizzato il sogno della mia vita, e ripagate ampiamente tutte le sofferenze patite.