Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1842, I.djvu/201

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168 capo xvii.

giunse, mi sono ammogliato. — Ad uno che diceva, che i beni erano molti, dimandò, qual ne fosse il numero, e se li stimava più che cento? — Non potendo reprimere la magnificenza di alcuni che lo invitavano a cena, invitato una volta, non disse già nulla, ma tacendo gli ammonì col prendere soltanto delle olive.

IV. Ond’è che questa sua libertà di parlare per poco nol mise a pericolo anche in Cipro presso Nicocreonte, coll’amico Asclepiade: chè celebrando quel re una festa mensuale, ed essi pure, come gli altri filosofi, avendo invitati, Menedemo disse che, se bello era quel rassembramento di persone, bisognava che la festa fosse ogni giorno; quando che no, superflua anche allora; ed a ciò opponendosi il tiranno e dicendo che quel giorno egli aveva di ozio per udire i filosofi, persistè, più che mai, ostinatissimo, che ogni tempo, siccome pei sagrificii, era convenevole ad ascoltare i filosofi; tantochè, se un suonatore di flauti non gli avesse divisi, vi perivano forse. Per la qual cosa, essendo in nave sbattuti dalla tempesta, è fama Asclepiade aver detto: come la buona musica del suonatore di flauto gli avea salvati, ma la libertà di parlare di Menedemo gli avea perduti.

V. Ed era, dicono, lontano dalle comuni usanze, e trascurato nelle cose della scuola, nè quindi si vedeva presso di lui alcun ordine ne’ sedili posti all’ingiro, ma ciascuno, come il caso portava, passeggiando o sedendo, lo ascoltava; e questo modo da lui praticavasi.

VI. È fama d’altra parte che quantunque timido, fosse anche ambizioso; poichè quando da prima, egli