Pagina:Le Novelle Indiane Di Visnusarma, UTET, 1896.djvu/116

Da Wikisource.
108 novelle indiane di visnusarma

Giù va calata;
Ben che sbilenca,
Ben che bistorta,


Va in su la scala
Che in alto porta1.


E poi:


Care le nuvole
A tutte genti,
Chè l’acque dolci
Sono pioventi;


Ma il sole in viso
Mirar non puoi,
Sempre vibrante
I raggi suoi2.


Così divisando, anche da chi è oppresso dalla povertà si può dar alcun poco del poco in tempo e misura opportuna. Perchè è stato detto:


Se dassi ad uom degno
In tempo ed in loco
Adatto e opportuno
D’onore alcun segno,


Dai saggi e prudenti
Per l’eternità
Quel segno si dà.


Da alcuni anche è stato detto:


Aver mai non si debbe
Soverchia avidità,
Nemmen si dee lasciare
Desìo con onestà.


Dell’avido soverchio
Al sommo della testa
Spuntar suole una cresta. —


La Bramina disse: Come ciò? — E il Bramino incominciò a raccontare.

Racconto. — C’era una volta in un paese selvoso un Pulinda3 il quale un giorno era entrato nella selva per cacciare. Andando egli qua e là, s’incontrò in un verro che pareva uno dei cocuzzoli del gran monte Angiana. Come l’ebbe veduto, egli l’atterrò con una saetta acuta, scagliata col tirar della corda dell’arco fino agli orecchi. Ma il verro, con animo preso da furore, gli squarciò il ventre con le zanne aguzze, simili ai corni lucenti della luna nuova, onde il Pulinda cadde morto a terra. Il verro allora, ucciso che ebbe il cacciatore, morì per il dolore della ferita ricevuta dalla freccia. Intanto, uno sciacallo che omai si avvicinava alla sua morte4, mentre andava errando qua e là tormentato dalla fame, capitò in quel luogo. Vedendo il Pulinda e il verro che giacevano morti, tutto contento si mise a pensare: Oh! come la sorte mi è favorevole! Ecco che qui mi capita da mangiare senza ch’io v’abbia pensato! Però giustamente si suol dire:


Quel frutto che con l’opre si procaccia
In altra vita5 l’uom, sia tristo o lieto,

In questa ei tocca e la sorte gliel manda
Senza che studio o cura egli vi faccia.

  1. Se pure questo passo va inteso così. Pare che qui si debba intendere una scala di corda. V. Benfey alla voce karkataka-raggiu.
  2. Altro giuoco di parole. In sanscrito mitra vuol dire sole e anche amico, e kara vuol dir viaggio e anche mano. Conforme i due ultimi significati, il passo si potrebbe anche tradurre: «Non si può guardare in viso ad un amico che (per domandar favori) tende sempre le mani».
  3. Nome di gente barbara e selvaggia.
  4. Cioè che il destino omai traeva a morte.
  5. In una vita antecedente.