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Il campo degli Illiati. 103

— Chi? — gridò il vecchio.

— Le Aquile della steppa — aggiunse Tabriz, — e siamo venuti a chiederti se i tuoi uomini le hanno vedute. —

Il vecchio batté le mani chiamando ad alta voce:

— Mursa Rabat! —

Un giovane pastore, che indossava una corta zimarra di panno grossolano con i bordi gialli e maniche larghissime e alti stivali di pelle rossa, era subito entrato.

— Narra ai miei ospiti chi hai incontrato stamane.

— Un grosso numero di cavalieri che mi parvero ghirghisi e usbeki, — rispose il giovane. — E alla loro testa vi era un uomo di forme tarchiate che teneva fra le braccia una fanciulla...

— Talmà! — esclamò Hossein.

Il giovane guardò il nipote del beg come per chiedergli di chi volesse parlare, poi, ad un cenno del suo capo, proseguì:

— La fanciulla indossava un costume da sposa ed aveva sul capo la tiara di metallo.

— Era lei! — gridarono ad una voce Tabriz e Hossein, mentre Abei si mordeva le labbra.

— La tua fidanzata? — chiese l’Emiro degli Illiati.

— Sì, la mia Talmà, — rispose Hossein, facendo un gesto disperato.

— Calmati signore, — disse Tabriz, e ascoltiamo quest’uomo. Dove si dirigevano quei cavalieri?

— Verso levante, — rispose Mursa Rabat.

— Verso il fiume dunque?

— Sì, mio signore.

— Si dibatteva la fanciulla?

— Non mi parve.

— Viva lo era però.

— Sì, la vidi alzare un braccio, come per minacciare il cavaliere che la portava.

— A che ora li hai veduti?

— Verso mezzodì.

— Galoppavano forte?

— No, filavano a piccolo trotto e mi parve che le loro cavalcature fossero molto stanche, perchè alcune rimanevano sovente indietro.

— Ed erano molti? — chiese Hossein.