Pagina:Le aquile della steppa.djvu/170

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164 Capitolo primo.

Il capitano la lasciò cadere in un bacino di rame per pulirla dal sangue, poi la ritirò.

— È rivestita di rame, — disse poi. — È una palla turchestana.

Vi uccidevate fra voi, dunque?

— No, signore. È stato commesso un infame delitto ed il fatto risulta limpidamente dalla ferita ricevuta dietro le spalle, mentre questo valoroso giovane non ha mai mostrato i talloni al nemico.

— Bah!.... Avete sempre questioni voi o.... —

Un sospiro che sfuggì a Hossein gl’interruppe la frase.

— Buon segno, — disse il capitano.

Poi, voltandosi verso Tabriz:

— Ora a te, gl’infermieri s’occuperanno del giovane. —

Tabriz andò a sdraiarsi su un materasso vuoto, che si trovava prossimo a quello del nipote del beg e si spogliò, senza aver bisogno dell’aiuto del sergente.

— Una ferita quasi identica e anche questa alla scapola, ma a sinistra invece che a destra, — disse il capitano medico.

— L’uomo che vi ha sorpresi alle spalle, ha fatto un doppio colpo. La faccenda sarà più facile dell’altra.

Per sfondare un simile dorso ci vuole ben altro che la palla d’una pistola.

— Quella d’una racchetta, capitano, — aggiunse il sergente.

— E forse non bastava ancora, — rispose il medico, sorridendo.

L’operazione non durò più di due minuti e riuscì completamente. Tabriz non mandò nessun lamento, anzi nemmeno un sospiro.

— Turchestana, è vero? — chiese il gigante, quando udì la palla cadere nel bacino.

— Precisa dell’altra, — rispose il capitano.

— Il miserabile! — ruggì Tabriz.

— Conosci l’assassino!

— Sì capitano.

— Un turchestano come te.

— Sì.

— Un cattivo camerata.

— Che un giorno ritroverò, signore e che ucciderò come fosse una belva feroce, quantunque nipote di un beg e parente del mio signore.