Pagina:Le aquile della steppa.djvu/206

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200 Capitolo quinto.

— Mi spiace di non aver abbattuto il maschio.

— Forse tu l’hai ferito, padrone.

— Avrei desiderato vederlo cadere; più tardi può tornare.

— E lo riceveremo con un’altra scarica, signore.

— Allora scendiamo e teniamo d’occhio il maschio. —

Hossein si penzolò dal ramo e si lasciò cadere a terra. Il gigante, che temeva la ricomparsa del maschio, fu pronto a imitarlo.

— Ecco un bell’arrosto, — disse, guardando la femmina.

— Che puzzerà di selvatico, — rispose Hossein.

— Se mangiamo le gazzelle e gli onagri, possiamo piantare i denti anche su questa bestia, purchè il maschio non venga a protestare.

— Hai un bell’appetito tu, Tabriz?

— Più sete che fame, signore. Ho la gola arsa.

— L’acqua non è lontana...

— E i piccini, signore.

— Fuori il kangiarro’.

— Sono pronto a spaccare il muso all’once, — disse il gigante, sfoderando l’arma. — Se viene avrà il suo conto. —

Respinsero coi piedi il cadavere della belva e s’inoltrarono risolutamente verso la macchia d’astragalli, in mezzo alla quale scorreva il rivoletto d’acqua che in nessuna altra parte dell’oasi avevano trovato.

Il maschio pareva che fosse scomparso, giacchè in mezzo al verde cupo del fogliame non si scorgeva il suo mantello biancastro. Tuttavia i due turchestani procedevano con precauzione, tenendo le pistole pronte ed i kangiarri snudati, ben decisi a consumare le ultime quattro cariche in caso di pericolo.

Non vedendo l’once, entrarono nella macchia e giunsero là dove i due piccini, abbandonati a sè stessi, stavano giuocando fra di loro, mordendosi a sangue.

— Ecco l’arrosto, — disse Tabriz, dopo d’aver dato un rapido sguardo all’intorno.

Due strette poderose bastarono per strozzare i due piccini.

Sollevò poi colle mani le foglie che coprivano il suolo e si mise a bere a larghi sorsi, mentre il nipote del beg vegliava.

Stava per alzarsi, quando un’ombra gigantesca lo attraversò, piombando, con uno slancio terribile, addosso ad Hossein e atter-