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202 Capitolo quinto.

Levò i due gatti, come li chiamava e li mise su un mazzo di foglie di melogranato, spaccandoli con due colpi di kangiarro.

— Se saranno un po’ coriacei, — disse, — non sarà colpa mia.

Pianta i denti, signore. Abbiamo ben diritto di mangiare anche noi. —

I due once non tardarono a scomparire, specialmente nel ventre di Tabriz, poi i due fuggiaschi, sicuri di non venire disturbati, credendo che l’oasi non servisse di rifugio ad alcun animale feroce, si gettarono sotto l’ombra d’un grosso platano, cercando di dormire.

Quanto durò il loro sonno?

Certo non lo seppero mai.

Un grugnito rauco, che non doveva promettere nulla di buono, svegliò ad un tratto Tabriz, il quale stava sognando la verdeggiante steppa dei Sarti.

— Padrone!... — gridò, — ti senti male?... —

Un secondo grugnito, più forte dei primo e due gambe che gli compressero improvvisamente il petto, lo decisero ad alzarsi.

Una massa oscura, indecisa, gli stava sopra, cercando di afferrarlo.

— Signore! — urlò. — Gli usbeki dell’Emiro!... All’armi! —

Hossein, che dormiva quasi con un solo occhio, era balzato in piedi.

L’oscurità, resa più cupa dall’ombra proiettata dall’albero, era però così profonda che dapprima nulla distinse.

— Tabriz! — gridò.

— L’ho preso!...

— Chi?...

— Ah!... cane!... Sono abbastanza forte!...

— Tabriz!...

— Lo getto giù.

— Chi?...

— Lottare con me!... Stupido!... Ed ora ti farò a pezzi! —

Un urlo feroce, che fece gelare il sangue a Hossein, echeggiò fra le tenebre, seguito tosto da una bestemmia.

— Bestia maledetta! Mordi?..

A te!... Prendi questo!... E questo ancora! Ne hai abbastanza?...

— Tabriz!...