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Il «Loutis». 207

— Ecco un boccone che anche l’Emiro di Buckara ci invidierebbe, — mormorò il gigante.

Strappò da un cespuglio alcune larghe foglie e vi depose il zampone, dopo averlo sbarazzato del suo involucro.

— Cottura perfetta, signore, — disse. — Vedi come la pelle è magnificamente screpolata e arrosolata? —

Tagliò l’arrosto in quattro parti e si misero tutti e due a mangiare.

Avevano ingoiati però pochi bocconi, quando una voce gioviale disse dietro di loro:

— Buona sera, signori. Non vi è nulla per un povero loutis che muore di fame e che non ha più la sua scimmia per guadagnarsi da vivere? —

Tabriz e Hossein, colti all’improvviso, balzarono precipitosamente in piedi, impugnando i kangiarri.

L’uomo che era sbucato fra le macchie d’astragalli, fece un cenno con ambe le mani, come per dire:

— Da un povero diavolo par mio non avete nulla da temere, signori.

— To’! — esclamò Tabriz dopo d’averlo squadrato attentamente, — io ti ho veduto ancora.

— E anch’io, signore — disse Karaval, poichè era lui.

— Tu facevi parte della carovana che conduceva a Bukara i prigionieri fatti a Kitab, è vero?

— Sì, io la seguivo per divertire colle mie scimmie quei disgraziati e nel medesimo tempo per guadagnare qualche cosa.

— Se non m’inganno avevi un compagno.

— Anche questo è vero, — rispose Karaval.

— Come ti trovi ora qui? — proseguì Tabriz, guardandolo un po’ sospettosamente. — Perchè non hai seguita la carovana?

— Nel momento in cui le sabbie precipitavano sull’accampamento degli usbeki, mi sono sentito sollevare in aria e scaraventare non so dove. Una tromba mi avrà preso fra le sue spire e portato via.

— Come siamo stati portati via noi, — disse Hossein.

— Quando rinvenni, mi trovai solo in mezzo alle dune, colle ossa tutte peste. — Mi orizzontai come meglio potei e cercai di riguadagnare l’accampamento, ma non trovai più ne tende, nè usbeki, nè prigionieri, nulla.