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246 Capitolo decimo.

ticato che sul ridotto vi sono dei falconetti e che questa catapecchia ha le muraglie di fango. —

In quell’istante un colpo di fucile partì dietro il cespuglio, ed una palla si piantò profondamente nella tavola che serviva da barricata.

Tabriz fece un salto, riparandosi dietro lo stipite della porta.

— Pare che si siano finalmente decisi, — disse, sorridendo. — Sono di una prudenza che rasenta quella dei conigli.

— Non esporti, Tabriz.

— Lascerò a loro sprecare le munizioni, signore. Ci tengo anch’io a non farmi crivellare, almeno fino al giorno che ti avrò vendicato.

— Taci! — disse Hossein con voce sorda.

— Sì, è meglio lasciar parlare gli archibugi e le pistole, per ora. —

Una scarica tenne dietro alle sue parole. Le palle si piantarono nelle pareti di fango e nella tavola e alcune perfino sul soffitto.

— Padrone, — disse ad un tratto il gigante. — Non spaventarti se io griderò, anzi farai meglio ad imitarmi.

— Perchè?

— Lascia fare a me. La mia idea mi sembra buona. —

Una seconda scarica rintronò, avvolgendo il cespuglio d’una nuvola di fumo.

Tabriz aveva mandato un urlo, come d’un uomo colpito a morte.

— Grida anche tu, padrone, — disse poi subito. — Forte!... Forte!... —

Quantunque Hossein non riuscisse a comprendere il piano del gigante, aveva mandato a sua volta un lungo urlo.

— Ed ora silenzio, — aveva sussurato Tabriz. — Fingiamo di essere morti. —

Gli usbeki, che avevano udite quelle due grida, si erano prontamente alzati coi moschettoni ancor fumanti, guardando la casupola.

Stettero qualche minuto immobili, poi, non udendo alcun rumore, nè vedendo ricomparire i due assediati, fecero alcuni passi innanzi, incoraggiati dai sagrati del capo.

Gli usbeki, credendo che gli assediati fossero stati veramente uccisi dalla seconda scarica, si erano fatti animo e s’avanzavano,