Pagina:Le aquile della steppa.djvu/253

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L’assedio. 247

lentamente però, cercando di scoprire, dietro la tavola che ostruiva la porta, i due cadaveri.

Erano tanto sicuri di trovarli morti o agonizzanti, che non avevano nemmeno presa la precauzione di ricaricare i loro moschettoni.

— Attento, padrone, — sussurrò Tabriz che si teneva sempre nascosto dietro lo stipite della porta. — Salta la tavola e piomba su quei furfanti.

— Ho il kangiarro ben saldo in mano.

Il capo degli usbeki, che era dinanzi a tutti e che impugnava una specie di scimitarra assai ricurva e dalla lama larghissima, giunto a quattro o cinque passi dalla porta si fermò, gridando:

— Vi arrendete? —

Nessuno rispose.

— Sono proprio morti, — disse poi, volgendosi verso i suoi uomini. — Non mi aspettavo che tiraste così bene. —

I ventiquattro uomini si fecero coraggiosamente innanzi per rimuovere la tavola, quando d’un trattto videro il gigantesco Tabriz e Hossein varcarla con un solo salto e piombare in mezzo a loro.

Uran!... Uran!... —

Il terribile grido degli scorridori della steppa turchestana lanciato dai due assediati, fu accompagnato da due colpi di kangiarro che fecero stramazzare a terra due usbeki colle gole squarciate.

— Sotto, padrone! — urlò Tabriz, che menava disperatamente le mani.

— Cacciamo questi poltroni. —

Quell’attacco fulmineo e soprattutto la vista di quel colosso, sconcertò gli assedianti. Spararono appena qualche colpo di pistola, poi volsero i tacchi come lepri. Anche il loro comandante, che era sfuggito per un vero miracolo ad un colpo di kangiarro, vibratogli da Hossein, se l’era data a gambe non meno velocemente degli altri.

— Credo che per ora ne abbiano abbastanza, — disse Tabriz, rifugiandosi prontamente entro la catapecchia. — Guardati dalle palle, signore.

Ci tempesteranno di certo.

— Finchè adopreranno i fucili non avremo molto da temere,