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La sconfitta degli usbeki. 261

In quel momento il sole scomparve e l’oscurità piombò sulla steppa, dopo un brevissimo crepuscolo.

— Signore, — disse Tabriz. — Rallentiamo e aspettiamo la luna. Non tarderà a mostrarsi.

— Allora li raggiungeremo di notte.

— È quello che desidererei. In qualche luogo si fermeranno, signore. I loro cavalli non sono già di ferro e avranno bisogno di un po’ di riposo. —

Misero i due corridori al passo, attendendo pazientemente il sorgere dell’astro notturno. Una pallida luce, che accompagnava quella delle stelle prossime all’orizzonte, annunciava già la sua imminente comparsa.

Tabriz teneva gli occhi fissi sul sentiero aperto dai fuggiaschi, temendo di smarrirlo, quantunque quel solco fosse così largo e così marcato fra le altissime erbe, da non potersi ingannare sulla sua direzione.

Non era trascorso un quarto d’ora, quando un grande disco, simile ad una lastra di rame infuocato, sorse quasi improvvisamente all’estremità dell’immensa pianura erbosa, proiettando per alcuni minuti, un immenso fascio di luce rossa che diventava rapidamente azzurrognola.

— Ecco la luna che viene in nostro aiuto, — disse Tabriz. — Ci vedremo come in pieno giorno e scopriremo ben presto i fuggiaschi.

Su questo mare di verzura i loro cavalli si distingueranno senza alcuna fatica.

To’, non vedo più le due macchie nere. Che si siano fermati in qualche luogo?

— O che accorgendosi di essere seguiti abbiano forzate le loro cavalcature e che abbiano guadagnato su di noi qualche altro miglio?

— È impossibile signore che i loro cavalli possano competere con questi. Devono essersi fermati in qualche luogo e ti consiglierei di procedere con cautela.

Sono in due e noi pure siamo in due e potrebbero essere buoni bersaglieri, quantunque non abbia mai udito che un loutis ed un taverniere siano diventati di punto in bianco guerrieri.

— Ti ho detto che io sospetto invece che quel falso ammaestratore di scimmie fosse un bandito della steppa.