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378 le confessioni d’un ottuagenario.

Mi rizzai tremante e lagrimoso ancora, ma conscio e sicuro di me; apersi religiosamente il suo libro e ne sfogliai con raccoglimento le pagine. Erano le solite orazioni, semplici e fervorose; conforto ineffabile delle anime divote, geroglifici ridicoli e misteriosi pei miscredenti. Qua e là si frapponeva l’immagine di qualche santo, qualche polizzino di comunione col suo testo latino e la cifra dell’anno in fronte; modeste pietre miliari d’una lunghissima vita, ammirabile di fede, di sacrifizio e di contenta giocondità. Finalmente mi capitò sott’occhio una carta piena da capo a fondo d’uno stampatello irregolare e minuto, quale è usato da coloro che imparino soli a scrivere metà da scritture corsive e metà da lettere stampate. Era il carattere autentico di Martino, e mi sovvenne allora ch’egli già adulto, a forza di scarabocchiare, era giunto ad esprimere alla bell’e meglio quanto aveva in capo, per potersene giovare nel render conto delle spese ai padroni. Trovata quella carta mi parve avere tra mano un tesoro, e mi accinsi ad interpretarla, benchè non mi sembrasse impresa tanto agevole. Pure cerca e ricerca, aggiungi di qua e togli di là, a forza d’ipotesi, di rattoppi e di appiccicature, mi venne fatto di cavare un senso da quel viluppo di lettere, vaganti senz’ordine e senza freno come un branco di pecorelle ignoranti. Pareva fossero ricordi o ammaestramenti d’esperienza ritratti da qualche stretta pericolosa della vita vittoriosamente superata; e a rinfiancarli, il buon vecchio aveva aggiunto qualche massima devota e i comandamenti di Dio ove cadevano a proposito. E la scrittura non mancava di qualche rozza eleganza come sarebbe d’un trecentista, o di qualunque uomo che non sa scrivere, ma sa pur pensare meglio di coloro che scrivono. Cominciava così:

«Se sei al tutto infelice è segno che hai qualche peccato sull’anima; perchè la quiete della coscienza prepara