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36 le confessioni d’un ottuagenario.

neppur la befana mi avrebbe fatto muovere, e soltanto dopo ch’egli era uscito riprendeva la libertà dei pensieri e dei movimenti. Io non seppi mai la ragione di un sì strano effetto prodotto sopra di me da quel vecchio lungo e pettoruto; ma credo che le sue guarnizioni scarlatte mi dessero il guardafisso come ai polli d’India. Un’altra mia grande amicizia era il cavallante, che a volte mi toglieva in groppa e menavami seco nelle sue gite di piacere, per l’affissione dei bandi e simili faccende. Io poi non avevo pei coltelli e per le pistole un odio simile a quello del capitano Sandracca, e durante la via frugava sempre per le tasche a Marchetto per rubargli il pugnale e far con esso mille attucci e disfide ai villani che s’incontravano. Una volta fra le altre che s’andava a Ramuscello a recare una citazione al castellano di colà, e il cavallante avea preso seco le pistole, frugandogli per le tasche ad onta delle pestate di mani ch’egli mi aveva dato poco prima, feci scattare il grilletto, e n’ebbi un dito rovinato; e lo porto ancora un po’ curvo e monco nell’ultima falange, in memoria delle mie escursioni pretoriali. Quel castigo peraltro non mi guari punto della mia passione per le armi, e Marchetto osservava che sarei riescito un buon soldato e diceva: peccato che non dimorassi in qualche paese dell’alta ove si avvezzava la gioventù a menar le mani, non a dar la caccia alle villane e a giocar il tresette coi preti e colle vecchie. A Martino peraltro non andavano a sangue quelle mie cavalcate. La gente del paese, benchè non fosse rissosa e manesca al pari di quella del Pedemonte, aveva muso franco abbastanza per imbeversi spesse volte delle sentenze di cancelleria, e per dar la berta al cavallante che l’intimava. E allora col sangue caldo di Marchetto non si sapeva che cosa potesse succedere. Questi assicurava che la mia compagnia gli imponeva dei riguardi e lo impediva dall’uscire dei gangheri; io mi vantava alla mia volta che ad una eve-