Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/115

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capitolo decimoterzo. 107

parve arrabbiatissima, perchè non venne a levarla quel bel cavaliere che era qui questa mattina, e si stizzì anche non poco colla mia ragazzina, perchè lasciò cadere per terra una sua cuffia. Dica lei, se questi sono segni di gran dolore! —

Io non risposi verbo: pregai la donna che non s’incomodasse per cagion mia, e siccome la persisteva nelle sue chiacchiere, nelle sue induzioni, mi voltai senza cerimonie dalla parte del morto. Allora essa mi lasciò solo, ed io potei sprofondarmi a mio grado nell’oscuro abisso delle mie meditazioni. Dice bene il mementomo del primo giorno di quaresima: tutti si torna cenere. Piccoli e grandi, buoni e cattivi, ignoranti e sapienti, tutti ci somigliamo, così nella fine come nel principio. Questo è il giudizio degli occhi; ma la mente? — La mente è troppo ardita, troppo superba per accontentarsi delle ragioni che si palpano. Le stupende e sublimi azioni inspirate dal Vangelo, non sono elleno figlie legittime dei pensieri, della dottrina, dell’anima di Cristo? Ecco una divinità, un’eternità in noi che non finisce colla cenere. Quel muto e freddo Leopardo non viveva egli in me, non riscaldava ancora il cuor mio colla bollente memoria dell’indole sua nobile e poderosa? — Ecco una vita spirituale che trapassa di essere in essere, e non vede limiti al suo futuro. I filosofi trovano conforti più saldi, più pieni; io m’appago di questi, e mi basta il credere che il bene non è male, nè la mia vita un momentaneo buco nell’acqua. Allora con questi melanconici conforti pel capo trassi di tasca quello scapolare, ch’era caduto il dì prima dalla mano del moribondo nella mia, e da un fesso chiuso con un bottoncino trassi un’immagine della Madonna e alcuni pochi fiori appassiti. Fu come un largo orizzonte che mi si scoperse lontano lontano, pieno di poesia, d’amore e di gioventù; tra quell’orizzonte e me vaneggiava allora l’abisso della morte, ma la mente lo varcava senza ribrezzo.