Pagina:Le mille ed una notti, 1852, III-IV.djvu/212

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tenerezza il minimo moto di sensibilità in un cuore come il vostro, destinato al più possente principe della terra. Aimè! nella mia disgrazia sarebbe pure una consolazione per me, se potessi lusingarmi che non aveste potuto vedere con indifferenza l’eccesso della mia passione! — Signore,» gli rispose Tormenta.... — Ah! madama,» interruppe Ganem a quella parola di signore; «è la seconda volta che mi fate l’onore di trattarmi da signore! La presenza delle schiave mi ha, la prima volta, impedito di dirvi ciò che ne pensava: in nome di Dio, madama, non mi date questo titolo onorifico; desso non mi conviene. Trattatemi, di grazia, come vostro schiavo: lo sono, e non cesserò mai d’esserlo.

«— No, no,» interruppe a sua volta Tormenta, «mi guarderò bene dal trattare così un uomo, al quale debbo la vita. Sarei un’ingrata, se dicessi o facessi alcuna cosa che non vi convenisse. Lasciatemi dunque seguire i moti della mia gratitudine, e non esigete, per guiderdone de’ vostri benefizi, ch’io adoperi malamente con voi. Non lo farò giammai: sono troppo commossa per abusarne, e vi confesserò pure che non veggo con occhio indifferente tutte le cure che vi prendete. Non posso dirvi di più: sapete le ragioni che mi costringono al silenzio. —

«Ganem fu lieto di tale dichiarazione; ne pianse d’allegrezza, e non sapendo trovare termini abbastanza adatti al suo desiderio per ringraziare Tormenta, si contentò di dirle che s’ella sapeva ciò che al califfo dovesse, egli da parte propria non ignorava che quanto appartiene al padrone, è vietato allo schiavo.

«Accortosi che calava la notte, si alzò per andar a prendere il lume, e lo portò egli medesimo, insieme a qualche cosa per far merenda, secondo l’uso comune della città di Bagdad, dove, fatto un buon pasto al mezzogiorno, si passa la sera a mangiar frutti