Pagina:Le murate di Firenze, ossia, la casa della depravazione e della morte.djvu/50

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di coscienza, nonostante le contrarie insinuazioni di questo esoso egoista, credè dovergli lasciare.

— Oh che ladro, oh che ladro!

— Il matto è uomo veramente buono, anzi buonissimo. Fu talvolta insegnato a farsi render ragione, a chiamare a sindacato il fratello ladro, ma esso non volle farlo mai, adducendo a ragione, che il piatire con un fratello era imperdonabile delitto. Accettò sempre volentieri quel poco che gli volle dare, e tutta quiete e pace se la rideva in seno della sua famiglia, sempre allegro, contento, col cuor nello zucchero.

Troppo lungo sarei se io volessi parlarti di tutti i furti da questo insigne ladro perpetrati: se narrar ti volessi in quanti modi con quali iniquissime arti trappolò, frodò tutti quelli che ebbero con esso qualche interesse. Ti basti che scaltro sempre, infingitore pronto, paziente, costante nell'intendimento di arricchire, potè nel breve giro di trent'anni accumulare in soli beni stabili (non computando il molto danaro contante le molte cedole di crediti che tiene in maggior copia di quel che si crede) un patrimonio di meglio che centomila scudi.

— La è una fava! Misericordia che ladro!

— Niuno fuggì mai alle sue granfie senza lasciarvi o pelo o pelle, ed è più facile camminar calzati di lana per un campo di loppole senza che alcuna ti si appiccichi, di quel che sia l'impacciarsi con lui e uscirne senza danno.

— Ma ditemi, buon genio, nel luogo dove esso abita, la giustizia umana sarà cieca, sorda, stupida, addormentata?

— Tu se’ giovane ancora, o almeno non hai tutta quella sperienza che potresti avere. E non sai tu che la giustizia fra gli uomini è ben raro che si mostri? che un