Pagina:Leopardi - Epistolario, Le Monnier, 1934, I.djvu/127

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94 EPISTOLARIO cii felicissima e rarissima vena. Signor Contino mio, mi fo forza per finire: ma senza fino sono suo cordialissimamente. M’accorgo d’avere dimenticata una cosa che può importare alla sua quiete. Ella desidera di veder Firenze; ed ha ragione. È la culla, la madre, la scuola delle belle Arti: ne è piena, e mirabilmente splendida. Per questa cagiono. Ella (quando che sia) vedrà Firenze; e farà bone.1 VS. pensa poi ragionevolmente che la consuetudine de’ buoni parlatori sia giovevolissima, anzi necessaria a scriver bene: eli’ ha ragione in massima: nel caso nostro però il fatto è tutto diverso. Non ci è paese in tutta Italia dovo si scriva peggio che in Toscana e in Firenze; perché non ci è paese dovo meno si studi la lingua, o si studino i maestri scrittori di essa (senza di che in nessuno si potrà mai scriver bene); ed oltre a ciò non è paese che parli meno italiano di Firenze. Non hanno di buona favella niente fuorché l’accento: i vocaboli, le frasi vi sono molto più barbare che altrove. Perché ivi non si leggono se non che libri stranieri. Chiunque in Toscana sa leggere, dee VS. tenere per certissimo che non parla italiano: e questo rimane solo a quei più poveri e rozzi elio non sanno punto leggere: ma la conversazione di questi nulla potrebbe giovare a chi vuol farsi scrittore. Io non gliene parlo in aria; ma per molta esperienza con sicurezza.2 E di nuovo la riverisco ed abbraccio col cuore. 52. A Giuseppe Acerbi. - Milano,3 / Kecanati 19 Maggio 1817. Stimatissimo Signore. Le mando per la posta un mio libretto,4 facendo scrivere il suo indirizzo sulla stessa coperta, perché questa 1 Di ciò il Giordani parla come di cosa immancabile; e non ingannava. Il soggiorno di Firenzo e della «cara e benedetta Toscana» fu certo il più desiderato e, per varie ragioni, il più gradito a G. 2 Per quanto G. amasse Firenze o la Toscana, se non giunse a queste un po’ troppo spinte affermazioni del Giordani, non molto ne discordò, come può vedersi in più luoghi dello Zibaldone ove tratta della lingua. 3 Dalla copia di Paolina, in casa Leopardi. 4 È il ms. delle «Iscrizioni greche Triopee recate in versi italiani dal conte G. L., con testo e noto (1816)». Di queste Iscrizioni (dette Triopee da Triopio, piccolo borgo a tre miglia da Roma, e ivi collocato da Erode Attico per onorar la memoria della moglio Annia Regilla), le quali, scritte e dedicate sul finire del II secolo dopo Cristo, furon dissotterrate al principio del XVII, aveva fatto ima bella o compiuta edizione nel 1794 Ennio Quirino Visconti. Il L., non soddisfatto della versione poetica del Visconti, volle tentarne una nuova in 3“ rima; le premise un’erudita prefazione, per la qualo uveva chiesto e ottenuto notizie poco concludenti dal Cancellieri (vedi lett. 15, pp. 34-30; e 17, p. 39 e nota 4) vi aggiunse un epigramma di Antifilo Bizantino analogo all’argomento della prima iscrizione; e ne formò un «libretto», che dopo l’inutile invio al Cancellieri pensò mandare all’Acerbi per la pubblicazione nella Biblioteca Italiana, come dalla presente. L’Acerbi sembrava in principio non alieno dall’accoglierlo nel Giornale; ma andando la cosa in lungo, G. il 20 ottobre gli chiese la restituzione del ms., che però non gli fu rimandato. Esso fu potuto ricuperare assai più tardi, nel 1846, dal Viani; il quale lo pubblicò nel II volume dell’Epistolario leopardiano (Firenze. Le Monnior, 1849), aggiungendovi anche