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ACCADEMICHE. 29

procede un impeto eguale al peso assoluto del corpo pesante. Dicemmo anco, che i medesimi gravi mentre cadon per aria, conservano detti momenti, non avendo solido alcuno sottoposto, che coll’opporsi gli estingua. E che però la moltiplicazione delle forze d’ogni grave cadente, quando arriva a percuotere, dee esser infinita. Si produssero alcune ragioni; perchè causa dunque non seguisse l’operazione infinita, se infinita era la virtù. In quest’ultima parte della percossa artifiziale abbiamo detto, che la forza dell’urto non dipende altrimenti dalla quantità della materia; poiche se ciò fosse, converrebbe, che la medesima palla di sessanta libbre di ferro, facesse sempre la medesima operazione, lanciata una volta da un uomo, ed una volta avventata da un Cannone. Non dipende ne anche assolutamente dalla velocità: perchè con maggior velocità urterà una tavola d’abeto tirata per l’acqua quiescente, che un vastissimo Galeone, e pur il meno veloce farà maggiore violenza nell’urtare. Si può dunque con ragione affermare. Che di qualsivoglia corpo velocitato da potenza esteriore, l’efficacia nell’atto dell’urtare non sia altro, che virtù impressagli dalla potenza di chi l’avrà mosso. E però si vede, che la forza dell’urto non riesce maggiore, conforme sarà maggior la materia, o la gravità, o la velocità; ma solamente secondo che maggior sarà stata la sua renitenza all’esser mosso; cioè secondo ch’egli avrà dato maggior campo alla potenza motrice di poter imprimere in esso maggior cumulo di virtù.

Che poi la forza dell’urto debba esser anch’essa infinita, vi militano l’istesse ragioni dette intorno alla percossa naturale.

Benefizio per certo ha ricevuto questa dottissima Accademia del mio discorso; avendo io con proposte ottuse, cagionato obbiezzioni ingegnose, e con pensieri rozzi, risvegliato ne i vostri sottilissimi ingegni concetti peregrini.


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