Pagina:Lucifero (Mario Rapisardi).djvu/28

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lucifero

225E a sè stessa giacea, spregio e vergogna
Delle cose create, e le create
Cose, ignara di tutto, iva mescendo
Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi
Qual mai n’ebbe pietà, se non ch’io solo
230Io sol più che a me stesso? E non cotanto
Mi punse il cor la fulminata fronte
Dei fratelli Titani, e non di sdegno
Arsi così per l’usurpate sedi
Del fuggiasco Saturno e pe’ negletti
235Consigli miei, quanto d’affetto e d’ira
Destommi in cor la tribolata sorte
Degli umani infelici. Ardito e solo
Contro a’ Numi io mi stetti, e alzai la voce
Contr’esso Giove, allor che ad uno ad uno
240Sprecava i doni al vegetale e al bruto,
E all’uom, povero tanto, altro conforto
Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
L’uomo infelice il mio favor: sol io
Gli svegliai l’intelletto, io di gagliarde
245Armi e d’abili ingegni e di civili
Comunanze lo instrussi, io sotto al trono
Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi
Non minor d’alcun altro. Ahi! qual mi venne
Premio da ciò? Non che n’aver mercede,
250L’invida rabbia arsi di Giove, e degno
Tenuto fui d’ogni più cruda ammenda,
Quasi reo di delitto. A questa roccia
Già Vulcan m’inferrò, tra questi anfratti
Mi profondò la folgore nemica,
255E perpetuamente alle voraci
Cagne del ciel fatto son cibo vivo
E favola del mondo. E nè querela
Movo di ciò, chè il querelar non giova
A chi esente è di morte, e inesorata



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