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314 la conquista della conca di plezzo


austriaci avevano preparato un’arma primordiale e terribile. Avevano disposto orizzontalmente sul pendìo delle travi, tenute da corde alle estremità, e appoggiate alle travi avevano ammassate enormi pietre. Quando vedevano che il fuoco dei fucili e il lancio delle granate a mano non fermava la furia dell’attacco, lasciavano andare una delle corde, la trave cadeva, e tutto l’ammassamento delle pietre, mancando il sostegno, precipitava tumultuosamente, rotolava lungo la costa rombando, rimbalzava. Era un contrattacco di macigni.

I nostri, sorpresi ma non sgomentati, non hanno ceduto terreno, non si sono ritirati. Nella loro pratica della montagna hanno subito trovato la tattica necessaria a questa guerra da uomini delle caverne. Sanno come ci si salva dalle pietre che si staccano nei canaloni durante i disgeli. Tutto quello che cade segue le linee di massima pendenza; i nostri soldati hanno cominciato ad attaccarsi ai costoni, alle sporgenze, alle balze, formandovi dei ripari. Poi hanno creato sbarramenti, difese, ed hanno allargato a poco a poco il loro fronte di attacco. Intorno all’estrema vetta tendono a formare un cerchio d’investimento. Non potendo assalire ancora, vogliono chiudere il nemico. È l’assedio di una roccia.

Ai difensori non rimane più che una strada aperta. È un sentieruolo verso levante, verso la valle del Predil. Non si lotta quasi più che