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408 sulle pendici del carso


fusione da scrittura misteriosa, come un’invasione di caratteri cuneiformi. E le trincee di difesa e di attacco non sono scavate; la terra manca per nascondervisi. Sono elevate.


Non ci si affonda, ci si innalza. Non si zappa, si costruisce. Bisogna andare all’assalto portando sulle spalle sacchi pieni di terra. Appena ci si ferma, un uomo sorge. Con le munizioni si portano avanti sassi, sacchi, cemento, travi, e si lavora, si erige, i parapetti si formano che le blindature vanno poi coronando. Spesso il lavoro è impossibile. Il combattimento incalza, tutti debbono prendere il fucile, la trincea appena sbozzata è un minuscolo rilievo di pietrame, vi si arriva carponi, vi si sta rannicchiati dietro per giorni, per settimane, aggrampati a quella parvenza di difesa, ostinati, esasperati, decisi.

Dopo ogni avanzata nostra, arrivano i contrattacchi. Due, tre volte il nemico tenta e ritenta la riconquista delle posizioni perdute. Non di rado è il contrattacco che ci porta avanti. Il nostro soldato ha l’istinto dell’offensiva, sente il momento utile allo slancio. Quando ha fermato il nemico, gli va addosso. L’occasione di trovarsi viso a viso con gli austriaci non è mai perduta. Un assalto austriaco finisce quasi sempre con un assalto nostro. Il bollettino ufficiale ha dato notizia di oltre trenta attacchi nemici sul Carso, e non erano che