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poesie varie 289


Mira che, ad ambe man le canne armoniche
tenendo in alto ancora e da le labbia
poco disgiunte, attoniti riguardano.
Egli depone il manto aurato e appendelo
a un verde ramo, di lontano il mirano
le Driadi e allegre l’una a l’altra additanlo.
Candida pelle a l’uso nostro or cingesi,
poi siede anch’egli in giro e del Parrasio
bosco si dice abitator. Ripigliasi
l’usato canto; ma che sento! Simili
non son piú a voi le vostre voci. A l’ètere
qual suon s’inalza? E come mai le querule
siringhe in un balen trombe divennero?
Gli augelletti al rumore i nidi lasciano,
rimbomba il colle e Pane al nuovo strepito
corre fuor de la grotta e guarda e stupido
alza le mani aperte e inarca il ciglio.
Or qual sent’io spirto nel sen che m’agita?
     Che ninfe o selve? Oltra le vie del sole
spinger mi sento; eccelse in guerra imprese
splendon d’intorno e su la gloria han regno.
Suoi denti in sé per disperato sdegno
rivolga il tempo, un inno alto sonante
di mano a Febo io vo a rapir, e allora
a lui mi volgerò che in un istante
ben cento regni ancor fanciullo ottenne;
dirò com’ei sostenne
ben cento assalti de l’Europa armata,
come ardito gravò di ferree spoglie
le membra molli, come aspra e gelata
sprezzò la notte e sprezzò il giorno ardente.
Tu non temesti di Nettun fremente
’orribi 1 faccia. Tu, P’ilippo invitto,
i gioghi carchi di perpetuo verno
varcasti e i fiumi di fatai tragitto.
Te vide il Tago in su destrier spumante