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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/232

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230 la novelletta


119.Non ti sovien con qual superbia, e quanto
fasto, quantunque a non curarla avezze,
poi che n’accolse, ambizïoso vanto
si diè di tante sue glorie e grandezze?
E pur a noi (ben che n’abondi tanto)
poca parte donò di sue ricchezze;
e poi che fastidita ne rimase,
sùbito ne scacciò da le sue case.

120.Quando a farla pentir di tanto orgoglio
vogli tu (come credo) unirti meco,
esser detta mai più donna non voglio
s’a mortal precipizio io non la reco.
Per or tornando al solitario scoglio,
nulla diciam d’aver parlato seco.
Non facciam motto del suo lieto stato,
per non farlo col dir vie più beato.

121.Assai noi stesse pur visto n’abbiamo,
e di troppo aver visto anco ne spiace!
A que’ poveri alberghi omai torniamo,
dove mai non si gode ora di pace.
Là consiglio miglior vo’ che prendiamo
a punir di costei l’insania audace:
onde s’accorga alfin d’aver sorelle
suo malgrado più degne, e non ancelle!»

122.Tal accordo conchiuso, a quella parte
le scelerate femine sen vanno,
e con guance graffiate e chiome sparte
pur l’usato lamento a prova fanno.
I ricchi doni lor celano ad arte,
tra sé ridendo de l’ordito inganno.
Così con finti pianti e finti modi
van machinando le spietate frodi.