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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/60

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58 la fortuna


7.Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna,
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.

8.Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortal de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.

9.La Donna che dal Mare il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.

10.Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
smoderato piacer termina in doglia.