Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. II, 1977 – BEIC 1871053.djvu/481

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123.Giorno non è, che con infauste cose
non mi minacci alcun prodigio tristo.
Deh quante volte l’intrecciate rose
per se stesse cader dal crin m’ho visto?
e quante scaturir da l’amorose
poppe insieme col latte il sangue misto?
La mano il petto involontaria otfende,
e malgrado degli occhi il pianto scende.

124.Mi sembra il lieto applauso urlo funesto,
e le cetre per me non son canore.
Non so che d’infelice e di molesto,
misera me, mi presagisce il core.
Col Sol che sorge, a dipartir m’appresto:
troppo lunghe fur qui le mie dimore.
Prima al Ciel, che m’attende, e poi gir deggio
a riveder colui che sempre veggio. —

125.Detto cosí, spalma il bel carro, e poi
per l’aura Orientai la sferza scote,
e l’auree nubi de’ confini Eoi
rompendo va con le purpuree rote.
Ma pur, lassa, in andando aver co’ suoi
travagliati pensier tregua non potè,
ed ondeggiando ognor tra questi e quelli
vola assai piú con lor, che con gli augelli.

126.— Oimè, dunque il mio ben — dicea tra via —
in lochi malsecuri e perigliosi
ad ogn’incontro di Fortuna ria
solo ed a mille rischi in preda esposi?
Ebbi core, o mio core, anima mia,
di lasciarti tra mostri empi e rabbiosi?
Nemici di pietá mostri arrabbiati,
ma molto men di me crudi e spietati!